In collaborazione con Luca Stoppioni
La disabilità non ti rende eccezionale,
ma chiederti cosa pensi di saperne, sì!
Stella Young
Ufficio postale. Due giovani donne chiacchierano in attesa del proprio numero. A un tratto la conversazione si sposta sui figli.
Una fa all’altra: «Beh Marcello è stato davvero bravo nella campestre di domenica. Sì ok, è arrivato in fondo, ma partecipare è già un traguardo straordinario per lui! Tornando in macchina ho detto a Francesco: vedi, dovresti prendere esempio da Marcello! La sua determinazione è fuori dal comune». L’altra mamma s’irrigidisce, accenna una smorfia, poi un sorriso forzato e cambia discorso.
La fila procede, le due si alzano e si dirigono agli sportelli.
Luisa e Antonio, nipote e zio, pure in attesa, hanno assistito.
Luisa – Sentito? Siamo alle solite! Abilismo a pioggia!
Antonio – Cioè?
Luisa – È la discriminazione, il pregiudizio o la marginalizzazione nei confronti delle persone con disabilità. Lo dice l’Accademia della Crusca. È una parola recente, ricalca l’inglese ableism.
Antonio – Perché dici che si tratta di abilismo? Cosa c’era di discriminatorio in quella conversazione?
Luisa – Il bambino che si è impegnato, che determinazione! Sottotesto: conciato com’è!
Antonio – Oh, ma che rigidità! Magari le intenzioni erano buone.
Abilismo overt e covert
Luisa – Il punto è che nella comunicazione contano poco le intenzioni di chi parla o scrive, conta il percepito di chi riceve. Le intenzioni erano magari anche buone, ma il risultato pare proprio di no. Credo che la questione nasca dal fatto che quando parliamo di discriminazione pensiamo in genere a parole e comportamenti apertamente ostili, vere e proprie aggressioni o mancanze plateali di rispetto. Esistono però anche forme di discriminazione che compiamo senza pensarci, e quindi senza voler offendere, ma che possono ugualmente creare disagio e imbarazzo. Quello di poco fa, secondo me, ne è un esempio. Un’indagine del 2021 dimostra quanto l’abilismo sia diffuso in Italia e, prendendo a prestito il lessico psicologico, ne distingue proprio due forme, quello overt, manifesto, riconoscibile, e quello covert, più nascosto, sfumato, implicito, ma altrettanto sgradevole.
Possiamo pensare all’abilismo come a una piramide, dove nella parte alta ci sono le forme Overt, segregazione, violenza e molestie, come spesso accade nei regimi dittatoriali, e nella parte inferiore quelle Covert. Qui si annidano tanti atteggiamenti che pratichiamo in modo involontario; non ci facciamo caso, ma si tratta di espressioni svalutanti, vere e proprie micro-aggressioni. Molte di queste nascono da stereotipi e pregiudizi che abbiamo interiorizzato e di cui molte volte non ci rendiamo neppure conto.

Abilismo: come saperlo riconoscere e contrastare
Pietismo, eroicismo, infantilismo, e altro
Luisa – Nel libro Pregiudizi inconsapevoli, Francesca Vecchioni spiega che le etichette sono composte da due variabili: calore e competenza. Il calore misura quanto ci sentiamo emotivamente vicini a una persona, la competenza quanto le riconosciamo capacità e potere. A volte pecchiamo di pietismo: riduciamo la persona al solo tratto della disabilità, volendo dimostrare grande vicinanza emotiva. Partiamo così dal presupposto che la disabilità sia fonte di malessere costante e privazione di potere: dimostriamo vicinanza alla persona, ma ne sottolineiamo l’incapacità.
Antonio – Uh, complicato. Qualche esempio?
Luisa – Quando diciamo “costretto su una carrozzina” stiamo identificando la carrozzina come una prigione, all’interno della quale si trova costretta la persona con disabilità motoria. In realtà è proprio lo strumento grazie al quale la persona acquista autonomia. In inglese, quelle motorizzate si chiamano addirittura power-chair. Ok, lì s’intende l’energia elettrica, ma c’è dentro anche il senso del restituire la possibilità di muoversi. Poi, se vogliamo dirla tutta, anche “carrozzina” non è il massimo: richiama il mezzo di trasporto dei neonati e i comportamenti accudenti che ne derivano. E neppure “rotelle”, che è un diminutivo. Perché non chiamarla “sedia a ruote”, pari pari all’inglese wheelchair?
Antonio – Anche “soffre di sordità” o “affetto da paraplegia”, quindi, sono espressioni di pietismo?
Luisa – Sì. Stiamo identificando così la disabilità come una malattia, una forma di sofferenza continua.
La definizione di disabilità nel corso degli anni è cambiata. Fino alla metà degli anni Settanta prevaleva il paradigma biomedico: la malattia e la salute erano il frutto di equilibrio o squilibrio biologico. Scarsa era la considerazione per aspetti psicologici, sociali o emotivi. Poi via via si fa largo un modello che prende in considerazione anche questi elementi, per arrivare al 2006, quando nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, si ribalta la prospettiva. La disabilità, vi si legge, è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri.
Antonio – Beh che cambiamento! La disabilità, quindi, non è più considerata una patologia né una caratteristica propria della persona, piuttosto è vista come il malfunzionamento del rapporto fra la persona e l’ambiente circostante. Qualcosa che nella vita può riguardare chiunque, e che ci rende un po’ tutti “temporaneamente abili”: pensiamo a un infortunio, a una periodo di malattia, oppure alla vista, all’udito o alla tenuta del nostro scheletro che può indebolirsi.
Luisa – E non è tutto. Ci sono molte altre forme di abilismo Covert, ad esempio l’eroicismo, con cui facciamo l’opposto del pietismo, ossia esageriamo il potere altrui, trasformando la persona con disabilità in una sorta di eroe: “sei bravissima, io nella tua situazione non ce l’avrei fatta!”, “sei davvero ammirevole per quello che fai!” e via. Cosa stiamo dicendo in sottofondo? “Nonostante la tua disabilità, ce l’hai fatta” (tra l’altro, a fare cose molto spesso ordinarie). Stiamo di nuovo mettendo al centro la disabilità, come faceva quella mamma all’ufficio postale.
Antonio – Capisco ora che l’esibita ammirazione, e frasi come “dovresti prendere esempio dal tuo amico”, possano risultare non meno sgradevoli di “poverino, dev’essere proprio difficile”. Penso allora anche ai titoli dei quotidiani dove spesso le persone con disabilità sono descritte senza nome, magari con appellativi come ragazzo o ragazza, anche se del tutto adulte.
Luisa – Ecco anche l’infantilismo, quando si usa il baby talk, il linguaggio semplificato infantile, per rivolgersi a una persona con disabilità, o la sostituzione, quando invece che comunicare direttamente con lei, interagiamo con chi l’accompagna, o ancora la de-sessualizazione, forse più nascosta, con cui sottintendiamo l’assenza di bisogni sessuali e fisici in una persona con disabilità, e la sola presenza di una dimensione vagamente affettiva. Sono tutte forme di abilismo Covert.
Certo, non sono immediatamente facili da individuare proprio perché spesso sono inconsapevoli. C’è uno strumento che può tornare utile: un questionario, elaborato da un team di studiosi e studiose dell’Università di Harvard, proprio per scoprire le nostre associazioni implicite.
Perfino “inspiration porn”
Luisa – In un bellissimo speech TED dal titolo I’m not your inspiration, thank you very much, Stella Young, attivista e artista, chiama questo atteggiamento inspiration porn. È proprio l’atteggiamento eroicista, che non solo denota basse aspettative verso le persone con disabilità, ma ne sfrutta l’immagine come fonte d’ispirazione motivazionale. Difficile immaginare che sia piacevole essere oggetto di narrazioni drammatiche, o doversi dimostrare “normali”, per rassicurare gli altri. Semplicemente, dice Stella, le persone con disabilità usano al meglio le loro capacità e competenze. «Uso apposta il termine pornografia – precisa – perché implica l’oggettificazione di un gruppo di persone a beneficio di un altro gruppo di persone».
Antonio – Mi fai pensare a frasi che credo di aver detto io stesso, o almeno pensato: “se lo fanno loro, tu non hai scuse” o “fa’ come loro: non mollare mai”, o “non ha avuto fortuna nel corpo, ma ha una voglia di vivere straordinaria”. Il linguaggio riflette senza dubbio parti più profonde. E già che stiamo mettendo in discussione le nostre abitudini, c’è un’altra questione: “disabile” o “persona disabile”? o altro? Noto che tu usi “persona con disabilità”.
Gli approcci identity first e person first
Luisa – Ci sono due approcci: quello identity first, che mette in primo piano la caratteristica identitaria: Luigi è cieco, Antonio è down ecc.; e quello person first, che mette davanti l’essere persona: Luigi è una persona cieca, Antonio è una persona down. L’approccio identity fa leva su due meccanismi molto frequenti nel linguaggio, la generalizzazione e la cancellazione: generalizziamo, mettendo in evidenza solo una caratteristica della persona che diventa distintiva, e cancelliamo tutto il resto (chissà quante altre cose sono Luigi e Antonio, professionisti, padri, amici, viaggiatori, sognatori ecc.). L’approccio person sottolinea la coesistenza della disabilità con una miriade di altri tratti, nella stessa persona.
Antonio – So che ho a casa un libro – confesso, non l’ho letto – mi pare il titolo sia titolo Viaggiatori inattesi, fammi controllare sul telefono… sì, Carlo Lepri, uno psicologo. Dice la scheda: l’autore parte dal presupposto che la disabilità, come esperienza personale inattesa, rende le persone che la sperimentano socialmente riconoscibili in 6 diverse rappresentazioni: l’errore della natura, il figlio del peccato, il selvaggio, il malato, l’eterno bambino, e infine la persona, la più evoluta, che può comprendere tutte le altre, in cui la disabilità viene riconosciuta nella sua unicità e complessità.
Luisa – Attenzione, però: l’approccio person first non è preferito proprio da tutti. In un suo video lo youtuber autistico Orion Kelly dichiara che preferisce essere chiamato autistico e non persona autistica, o persona con spettro autistico. Prevale dunque sempre la scelta di ogni persona.
Antonio – Certo che è complicato!
Quando la disabilità è invisibile
Luisa – Possiamo sempre domandare, non c’è nulla di male. In situazioni di confidenza si può chiedere: “come preferisci che mi rivolga a te?”. Altre volte può essere sufficiente ascoltare con attenzione chi abbiamo di fronte, per individuare come parla di sé. L’ascolto, tra l’altro, ci consente d’intuire anche se magari esiste una disabilità invisibile, altra questione delicata. Siamo portati a pensare che la disabilità sia solo quella che si manifesta con evidenza: un paio di occhiali scuri e un cane guida per la cecità, una sedia a ruote per la paraplegia, un impianto acustico per la sordità. Ma ci sono moltissime forme di disabilità invisibile, della psiche più che del corpo, la depressione, fra le più comuni. Una campagna pubblicitaria tedesca, promossa dalla German Depression Aid Foundation, invita proprio a riflettere sui numerosi stereotipi legati alla depressione, malattia con altissima e crescente diffusione (oltre 300 milioni di persone nel mondo). S’immagina che la persona con depressione se ne stia isolata e con la faccia appesa; stupisce scoprire che a volte la depressione si nasconde sotto volti sorridenti e atteggiamenti socievoli, e in generale di quanto sia difficile rendersi conto della sofferenza psichica. Di recente il Politecnico di Torino, insieme con le Università di Bologna e Roma Tor Vergata, hanno dato vita a un algoritmo per riconoscere anche disabilità invisibili e costruire comunicazioni più inclusive.
Antonio – Luisa, tocca a noi, dai, non vedi il numero sul tabellone? sei cieca?!?
Dai non t’arrabbiare, volevo solo metterti alla prova.