Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Niente fuffa di Veronica Gentili, edito da Apogeo.
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Circa quindici anni fa ho deciso di specializzarmi in social media marketing e mi sono trovata davanti due problemi. Ero una signora nessuno: all’inizio lavoravo solo perché ero in società con mio padre che era un professionista molto stimato e conosciuto in zona ma io, come Veronica, la social media manager, partivo da zero. Nessuno o quasi era disposto a spendere per qualcuno che gli gestisse la pagina social: se ancora oggi si pensa che i social media li possa gestire “il più giovane in azienda che sa usare bene lo smartphone”, immagina che reputazione poteva avere un SMM in un’epoca in cui Facebook era visto come un giocattolo con cui cazzeggiare connettendosi al primo WiFi libero.
In pratica, mi ero messa in testa di diventare la più brava in un settore ancora inesistente, e mi ero ripromessa di farlo pur essendo invisibile e isolata nelle mie amate campagne toscane. Dovevo uscire dai confini locali. Mentre facevo le mie prime esperienze lavorative a partire dalla rete di conoscenti, mi scontrai con tre dati di fatto che avrebbero completamente cambiato il mio approccio all’acquisizione dei clienti.
Puoi essere la migliore professionista del mondo, ma se chi hai davanti non ha la minima idea del valore che puoi portare, sarà sempre scettico o restio a investire. Ed era esattamente questo il mio problema: i miei potenziali clienti non avevano ancora compreso le potenzialità del social media marketing e non sapevano cosa potessi fare per loro. “Facebook è una cosa da ragazzini” o “Tanto i clienti arrivano dal passaparola, non dai social” e ancora “Per fare marketing digitale basta avere un sito”. Mi sentivo ripetere queste frasi continuamente. Se queste sono le premesse, non c’è scampo: il tuo lavoro non ha speranze di uscire dallo stigma dei “soldi sprecati”, non sarà mai percepito come un investimento.
Agenzie simili alla mia risolvevano con un approccio commerciale: contattavano uno per uno i potenziali clienti con telefonate, email o altri tipi di pubblicità push, spiegando perché avrebbero dovuto investire nel loro servizio. Non era il tipo di posizionamento che cercavo. Dopo svariati tentativi, capii che, se sei tu a proporti a un cliente, parti da una posizione di inferiorità, perché dimostri di aver bisogno di lui e non il contrario.
E se già la trattativa parte zoppicante, devi aggiungere il fattore prezzo, il primo vero grande filtro del cliente: anche se ti avvicini a un millimetro dal convincerlo che ha bisogno di te, scatta la comparazione con la piazza dove, fidati, ci sarà sempre un cugino smanettone che costa meno di te. Se invece è il cliente a cercarti perché ti ha letto, seguito, apprezzato, il discorso cambia. Non sta più cercando un social media manager o in generale un professionista specializzato in qualcosa, sta cercando proprio te.
A quel punto, il prezzo diventa una variabile secondaria, perché chi arriva da te lo fa con la consapevolezza del valore che offri. Anzi, il tuo prezzo più alto diventa la prova che qualifica e definisce il tuo lavoro, perché dimostri di valere più della media, più della massa, ovviamente rimanendo entro i limiti del sostenibile. Questa è una lezione fondamentale: essere conosciuti e riconosciuti per ciò che sappiamo fare cambia completamente la dinamica del mercato. Invece di competere al ribasso, puoi posizionarti nel tuo segmento ideale e attrarre clienti di un certo livello, che cercano qualità e non il prezzo più conveniente.

Nei miei primi tempi di studio matto e disperatissimo ho tanto osservato cosa facevano e come si comportavano quelli che erano riusciti a farsi un nome nel digitale: i nomi che seguivo di più tra il 2008 e il 2012 erano Avinash Kaushik, Brian Halligan, Seth Godin, Mari Smith, Amy Porterfield. Come avevano fatto ad arrivare dove erano? Cosa facevano per restare dove erano arrivati? Non avevano solo accumulato sapere ed esperienza — ciò che Carl Newport chiamerebbe “capitale professionale” e sul quale stavo lavorando io —, ma sapevano anche raccontarlo e valorizzarlo, in modo continuo e coerente.
Esistono professionisti bravissimi, molto più di altri, ma incapaci di promuoversi — o semplicemente a cui non interessa farlo — e altri meno bravi e preparati ma famosi e con una reputazione nettamente superiore. Hanno più clienti e guadagnano di più solo perché sanno comunicarlo in modo più efficace e capillare. Insomma, il mondo è pieno di professionisti in gamba che restano nell’ombra perché non comunicano il proprio valore. E il mercato non premia chi lavora meglio, ma chi sa dimostrarlo e che sa anche, per rimanere nella sfera comunicativa, raccontarlo. I primi tempi pensavo che il mio lavoro dovesse parlare da solo, che bastasse farlo bene per essere notata.
Ma non è così che funziona: se non racconti tu la tua storia, le tue competenze e i tuoi risultati, nessuno lo farà al posto tuo. E, nel peggiore dei casi, perderai del tutto il controllo, perché il tuo ruolo sarà definito da chi non ha la minima idea di cosa fai davvero. Ecco come ho capito che il personal branding — leggi: attività (online e offline) continua e costante di racconto e valorizzazione delle proprie competenze ed esperienze — non era un’opzione, ma una necessità per raggiungere il mio obiettivo: lavorare in progetti a cui apportare un vero valore aggiunto e che, a loro volta, valorizzassero le competenze ed esperienze che andavo costruendo, non giocare mai nel campionato del prezzo più basso e posizionarmi in modo chiaro nel mio settore, senza dover ogni volta dimostrare da zero il mio valore a ogni nuovo potenziale cliente.
Non volevo essere una professionista tra le tante, intercambiabile, valutata solo in base a un preventivo. Volevo che chi arrivava da me sapesse già perché mi stava cercando. Ed è esattamente ciò per cui ho lavorato sodo. Ho preso alla lettera la poesia Farfalle di Mário Quintana: “Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te”. Istintivamente, pur essendo alle prime armi, avevo intuito che la tecnica del retino (modalità push) non rispecchiava il mio modo di fare e di essere, così ho deciso di coltivare il mio giardino.
“Quanto tempo ci vuole per avere i primi clienti grazie alle attività di personal branding?” È una delle domande che mi sento fare più spesso da chi ha appena iniziato a investire nella propria presenza online e magari ha già pubblicato qualche post su LinkedIn, ha aperto un blog molto attivo e ha avviato una fitta content creation su Instagram, ma dopo qualche mese si spazientisce perché i clienti non arrivano come sperato. “Ci vuole tempo” rispondo sempre. “Non puoi pretendere di seminare oggi e raccogliere domani.” Crearsi una reputazione — e con essa clienti che arrivano da soli — non è questione di giorni o settimane, online come offline. È un percorso fatto di costanza, qualità e soprattutto di pazienza. Proprio come un giardino: non basta piantare due fiori a caso e sperare che le farfalle arrivino. Devi preparare il terreno, curarlo ogni giorno, scegliere con attenzione cosa coltivare e avere la pazienza di aspettare che cresca. Raccogliere i frutti, piantare altri semi.
In più, una volta raggiunto l’obiettivo desiderato (posizionamento e reputazione), non puoi più fermarti, è una parabola ascendente. Non è come raggiungere la cima di una montagna: pianti la bandierina, ti godi il panorama e poi scendi quando ti va. È proprio come un giardino: una volta che fiorisce, ha ancora più bisogno di cure e attenzioni. Le piante vanno potate, il terreno nutrito, le erbacce tolte. Se smetti di annaffiare, il giardino non resta lì, bello e rigoglioso, ad aspettarti: pian piano si spegne, perde colore, diventa un cumulo di sterpaglie su un terreno incolto. Il personal branding è un lavoro continuo, che richiede aggiornamento, presenza e coerenza. Se smetti di curarlo, la tua visibilità cala, la tua reputazione si affievolisce e le opportunità che prima arrivavano spontaneamente all’improvviso scarseggiano, soprattutto se lavori in un settore ad alta competizione come quello digitale.
Ma da dove si parte? Io ho cominciato con tre strumenti chiave.
• Un blog: per condividere il mio know-how e costruire autorevolezza un articolo alla volta, e i social — ai tempi Facebook, Linkedin e, sigh, il fu Twitter —, per poter veicolare ciò che sapevo e imparavo e confrontarmi.
• I gruppi: in particolare su Facebook, per creare relazioni di valore con persone del mio settore, imparare dai più bravi ed esperti e offrire il mio contributo in conversazioni professionali.
• Gli eventi offline: perché nessuna presenza digitale può sostituire l’impatto di un confronto dal vivo, e queste sono le migliori occasioni, insieme ai gruppi, per dimostrare il proprio know-how e creare collaborazioni e relazioni di lavoro.
All’inizio non facevo numeri, non avevo clienti importanti né riconoscimenti, ma avevo costanza, tantissima voglia di mettermi alla prova e nessuna paura di condividere ciò che sapevo e imparavo sul campo. È stato così, un fiore alla volta, un articolo alla volta, una conversazione alla volta, che ho iniziato a costruire il mio brand.
Nei gruppi mi ispiravo intercettando le domande più interessanti delle persone e scrivevo articoli per fornire le risposte. E lo facevo mettendomi in gioco a nome della categoria — allora nascente — per dimostrare che il social media marketing poteva davvero portare risultati alle aziende. Spendevo ore e ore nel creare post di valore, rispondere alle domande, confrontarmi con colleghi e imprenditori, trasformare ciò che facevo sul campo ogni giorno in qualcosa di utile anche per gli altri, imparando dai più bravi come muovermi per posizionarmi in modo strategico, senza cadere nella trappola di pubblicare tanto per farlo, ma con l’obiettivo chiaro di offrire un valore reale da una parte, e costruire credibilità e autorevolezza dall’altra. Davo senza chiedere niente in cambio nell’immediato, proprio come si fa in un buon processo di semina, fatto però con semi e terreni accuratamente scelti.
Non si trattava solo di esserci, ma di essere una presenza utile e riconoscibile. Ogni articolo, ogni commento nei gruppi, ogni intervento a un evento era una pietra in più sulla torre della mia reputazione. Non mi stavo affidando a like e condivisioni per ricevere clienti ma alla percezione della mia figura professionale che stava passando, in un processo naturale, attraverso una fase in cui follower, like e commenti erano un indicatore di crescita. Più pubblicavo e più mi confrontavo, più ricevevo e analizzavo feedback e più mi rendevo conto che la mia nascente piccola community di clienti e follower apprezzava la mia abilità a spiegare concetti complessi in modo semplice, la mia capacità di rendere tutto pragmatico, di legare sempre ogni soluzione a metriche di business concrete e reali. Facendo, comunicando e guardando cosa mi tornava indietro, stavo iniziando a capire come potevo davvero differenziarmi dagli altri e rendermi unica e riconoscibile.
Per me i social avevano senso solo in quanto driver di risultati concreti per chi vi investiva seriamente tempo e denaro. Facevo il possibile per dimostrare ai miei clienti che con me si trattava di un investimento e non di una spesa inutile, ed ero anche piuttosto brava ad attingere dal mio lavoro quotidiano per creare contenuti utili, regalando alla mia community consigli, strategie e metodi utilizzabili anche dal piccolo imprenditore che si autogestiva i social in modalità fai-da-te e dal collega SMM. Queste caratteristiche, unite alla trasparenza dello stile diretto e senza fronzoli che mi ha sempre contraddistinta, mi rendevano autorevole e, allo stesso tempo, amichevole e accessibile. Era arrivato per me il momento di lavorare davvero alla mia comunicazione personale, per far sì che fosse coordinata e coerente, dal tono di voce alla grafica, dai contenuti che pubblicavo agli eventi a cui partecipavo. Non si trattava solo di scrivere articoli o fare post interessanti: volevo che chiunque incrociasse un mio contenuto — fosse un post su Facebook, un articolo del mio blog o un intervento a un evento — mi riconoscesse, capisse subito chi ero, come lavoravo e quale era il mio approccio. Dovevo curare con maggiore attenzione il posizionamento del mio personal brand, rendendo chiari alcuni elementi fondamentali.
• Il mio valore differenziante: niente fuffa, niente teoria scollegata dalla realtà, solo strategie concrete e applicabili subito.
• Il mio target: piccoli imprenditori, freelance e professionisti del digitale che volevano risultati misurabili e non like fini a se stessi.
• Il mio stile: diretto, pratico, senza giri di parole, ma sempre con l’obiettivo di essere utile.
Se cercavi qualcuno che ti vendesse l’illusione di diventare virale senza sforzo, non sarei stata la persona giusta. Se volevi strategie concrete per far funzionare davvero i social per il tuo business, allora sì. Ero l’anti-guru, l’esatto opposto di chi vende soluzioni facili, illusioni e ricette magiche per il successo online. Niente trucchi segreti, niente scorciatoie miracolose: solo esperienza, strategia e lavoro tangibile.