Ci sono due storie diverse per contesto e dinamiche avvenute a migliaia di chilometri l’una dall’altra ma che hanno avuto e stanno avendo eguale successo di pubblico sui social, sebbene l’una nella dimensione internazionale e l’altra in quella nazionale.

La prima è quella di una coppia – entrambi sposati con persone diverse – che decide di andare a un concerto, si abbraccia, finisce nell’obiettivo di una kiss cam e, quindi, l’abbraccio rimbalza prima sul maxi schermo dello stadio e, poi, complice anche la reazione istintiva di imbarazzo dei due, sui social di tutto il mondo.
Online vengono riconosciuti in pochi minuti, lui è il CEO di una startup da un miliardo di dollari e lei il capo del personale della stessa società. Le conseguenze sono devastanti: fuori entrambi dalla società e, soprattutto, due famiglie in frantumi.
La seconda è quella di un popolare attore italiano con una relazione sentimentale che dura da tempo che, a un certo punto, scambia alcuni messaggi vocali con un’altra donna. Messaggi che raccontano di loro incontri e che diventano pubblici prima nell’ambito di un servizio di gossip e in circostanze oggetto di un procedimento penale e, poi, dappertutto sui social, sino a monopolizzare l’attenzione dei media mainstream.
Le conseguenze, anche in questo caso, sono devastanti con la compagna di lui che dice di aver scoperto solo dai social il tradimento. Ed è proprio sul versante delle conseguenze che emerge un denominatore comune tra le due storie, sin qui, forse, sottovalutato e che, invece, vale la pena raccontare e mettere al centro di una riflessione, una soltanto.
I protagonisti principali delle due storie hanno dei figli che, probabilmente, hanno visto, ascoltato e letto cose sui loro genitori che sarebbe stato opportuno e, anzi, necessario non vedessero, non ascoltassero e non leggessero.
E se non lo hanno ancora fatto lo faranno tra qualche mese o, magari, tra qualche anno perché, sfortunatamente, mentre ci vuole un istante a condividere online un video, un audio o un post, una vita può non bastare per farli scomparire, cancellarli e condannarli all’oblio.
È la ragione per la quale in questo articolo non cito mai i nomi e i cognomi dei protagonisti delle vicende pure arcinote: per evitare di dare in pasto ai motori di ricerca e alle intelligenze artificiali che quei bambini oggi, domani o dopodomani utilizzeranno, ancora più informazioni sulle storie dei loro genitori.
Credo che quei bambini, quei figli avessero, abbiano, avranno il sacrosanto diritto di scoprire perché hanno o avranno famiglie diverse da molti altri figli e bambini dalla vivavoce dei loro genitori e non dal post di uno sconosciuto intercettato sui social o da un articolo di giornale loro proposto da un motore di ricerca o dal contenuto generato da un servizio di intelligenza artificiale generativa al quale, magari, hanno chiesto o chiederanno di scrivere un tema sulla loro vita o sulla loro famiglia.
E credo che, almeno su questo, dovremmo essere tutti d’accordo, da adulti innanzitutto, da genitori soprattutto. Ecco questa, credo, sia una riflessione che sin qui si è fatta di rado e che, invece, forse può valere a farci pensare un istante di più prima di precipitarci a condividere qualsiasi cosa riguardi la vita di qualcun altro sui social che sia un video, che sia un audio, che sia una foto o un post.
Decidere della vita altrui non tocca a noi. Ma, soprattutto, non tocca a noi esporre a un rischio enorme la vita di un bambino, il modo in cui guarda e guarderà alla mamma o al papà, non tocca a noi entrare a gamba tesa nell’intimità di una famiglia.
Quella smania di condividere, quella perversa convinzione ormai radicata dappertutto secondo la quale tutto è pubblico e niente e più privato e, soprattutto, quella percezione incosciente e irrazionale secondo la quale i video, le foto, gli audio e le parole che condividiamo continuamente online sono astratti, immateriali, sintetici e artificiali e non, invece, tessere del mosaico della vita, dell’identità, spesso dell’intimità di persone in carne ed ossa stanno progressivamente distruggendo la società nella quale viviamo.
Stiamo diventando astrazioni nella dimensione digitale, protagonisti di un videogame nel quale abbiamo tutti vite infinite. Condividere online informazioni e dati personali di chicchessia in qualsiasi forma è, normalmente, vietato in assenza del consenso della persona a cui si riferiscono e in assenza di un diritto di cronaca che, tuttavia, è eccezione alla regola del diritto del singolo di tracciare una linea di confine tra pubblico e privato, un diritto che, benché attenuato, conservano anche i personaggi pubblici.
Ma se le regole non bastano a imporci di rispettare questo diritto, allora, forse, vale la pena pensare che dobbiamo rispettarlo in nome dei figli di quelle persone almeno per sperare che, domani, altri si preoccupino di fare altrettanto in nome dei nostri figli.
Ecco, la prima volta che saremo assaliti dall’istinto di fare tap sullo schermo dello smartphone per condividere qualcosa che riguarda qualcun altro, chiediamoci cosa penseranno i suoi figli imbattendosi in quel contenuto e, magari, troveremo la forza di resistere all’istinto e di fare la cosa giusta, appunto, nel nome dei nostri figli.