Quando il secondo drone è arrivato sull’ospedale Nasser di Khan Younis, c’erano già medici e volontari al lavoro per estrarre vittime e feriti dalle macerie. Il secondo drone è esploso su di loro, mietendo altre vittime. Tra di loro c’erano anche i giornalisti, reporter che collaboravano con importanti testate di tutto il mondo per raccontare i fatti di Gaza: Al Jazeera, The Associated Press, Reuters. Si chiamavano Hussam al-Masri, Mariam Abu Dagga, Mohammed Salam, Moaz Abu Taha e Ahmad Abu Aziz. Anche loro sono finiti sotto il fuoco dell’esercito israeliano, quell’IDF che successivamente avrebbe detto di aver avviato una inchiesta sulle modalità con cui si è svolto l’attacco.
È la strategia chiamata in gergo “double tap”: tattica ampiamente considerata un potenziale crimine di guerra, poiché viola l’Articolo 3 Comune delle Convenzioni di Ginevra, che proibisce di prendere di mira i civili, i feriti o coloro che sono hors de combat (fuori combattimento).
Non è la prima volta che la vediamo messa in atto: paradossalmente, secondo un’inchiesta di +972 Magazine il Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti nel 2007 aveva descritto l’uso di ordigni esplosivi secondari per colpire i primi soccorritori come una “tattica preferita di Hamas”. Ironicamente, secondo la stessa inchiesta questa strategia sarebbe stata usata anche dagli USA (si fa esplicito riferimento ad alcune missioni in Pakistan), e pure la Russia è accusata dai media di sfruttare questo approccio negli scenari bellici dell’Ucraina.
Nelle stesse ore, in Italia esplodeva anche un altro caso mediatico: quello dei tour degli influencer all’interno della Striscia di Gaza, invitati dal Governo israeliano per smascherare (secondo la narrativa portata avanti da settimane dall’esecutivo israeliano) le fake news dei media occidentali, accusati di essere ostili alle ragioni di Israele. Per farlo, sono stati messi a disposizione di un manipolo di creator assoldati dal Governo accessi guidati, percorsi selezionati, storie già confezionate per essere raccontate.
Il secondo colpo all’informazione
Impossibile non notare la distanza tra i due approcci. Da una parte c’è chi paga il rischio di verificare sul campo, con la propria vita, quanto sta accadendo. Dall’altra c’è chi suona uno spartito scritto da altri. Non sempre, non necessariamente in malafede, ma con un risultato preciso: la messa in scena che prende il posto del lavoro giornalistico, la narrazione che si sostituisce alla verifica.
Sgombriamo comunque il campo, subito, da un possibile equivoco: fare il creator non significa, per definizione, non poter informare in modo efficace. Ma, allo stesso tempo, non basta creare video efficaci per fare informazione: un giornalista chiede accesso indipendente non per capriccio, ma per poter accedere alle fonti primarie, ai luoghi, per raccontare ciò che ha visto o non ha visto. Incrociare le testimonianze serve a chiarire le contraddizioni di un racconto, a confermare o confutare una ricostruzione. Una narrazione “incanalata” da un tour organizzato rischia di generare aberrazioni: immagini autentiche ma prive del contesto, confusione tra la prossimità emotiva generata dal creator con la prova fattuale.

Il double tap in questo caso diventa una pratica militare che va oltre il campo di battaglia. La logica strategica dietro l’eliminazione dei testimoni è un elemento chiave per comprendere la funzione di questa tattica al di là della sua brutalità immediata. In un’epoca di conflitto mediatizzato, il diritto internazionale e l’opinione pubblica sono pesantemente influenzati da prove visive e testimonianze oculari. Giornalisti e primi soccorritori sono le fonti primarie di queste informazioni indipendenti.
L’attacco double tap segue uno schema preciso: il primo colpo crea l’evento da documentare, mentre il secondo colpo prende di mira i giornalisti e i soccorritori. Si colpiscono i giornalisti, coloro che raccolgono e riportano i fatti, per troncare a monte il flusso di informazioni proveniente dal terreno del conflitto. Si eliminano cineticamente le persone che possono fornire un resoconto credibile e indipendente dell’accaduto.
Il secondo colpo si inserisce sulla percezione: genera il vuoto informativo che permette alla narrativa ufficiale dello Stato (ad esempio, “tragico incidente”) di essere diffusa con meno contraddizioni immediate e verificabili. Il vuoto informativo generato dalla uccisione dei giornalisti viene riempito da clip emozionali messe in scena da soggetti che dicono di aver “visto con i miei occhi” quanto preparato per loro dalla macchina della propaganda statale.
Si promuove questa narrazione a suon di sponsorizzate, volte a delegittimare voci terze (le redazioni, le agenzie di stampa, le ONG) e senza che a queste voci sia concesso accesso per verificare e confutare questa narrazione. Si satura lo spettatore di immagini, ma si impoverisce l’apporto di conoscenza: chi era sul campo e ci ha rimesso la vita viene seppellito sia fisicamente che mediaticamente. L’attacco, quindi, non è solo contro un ospedale: ma contro il processo stesso di raccolta della verità.
La linea rossa della propaganda
Dunque, ribadiamolo ancora più esplicitamente: fare informazione non è un compito a esclusivo appannaggio dei giornalisti. Gli influencer, i creator, hanno pieno diritto di cittadinanza in questo e qualsiasi altro spazio. Il loro ruolo nel raccontare prodotti, cultura, cause sociali è pienamente legittimo, necessario, purché sia svolto all’insegna della trasparenza.
Ciò che sappiamo, da fonti autorevoli e attendibili, è che una carestia è in atto e la situazione sta diventando ogni giorno più problematica. Il 22 agosto 2025, la situazione a Gaza ha raggiunto un punto di non ritorno con la dichiarazione formale emessa dall’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), un’iniziativa globale che riunisce oltre una dozzina di agenzie delle Nazioni Unite, governi e ONG. IPC è considerato il riferimento più attendibile per l’analisi della sicurezza alimentare a livello mondiale, e le sue conclusioni sono basate su protocolli rigorosi e dati verificabili.
La carestia (IPC fase 5) è stata confermata nel Governatorato di Gaza, con oltre mezzo milione di persone che affrontano già oggi condizioni catastrofiche. Entro la fine di settembre, il rapporto prevede che quasi un terzo della popolazione di Gaza (650.000 persone circa) si troverà in fase 5: insufficienza alimentare, malnutrizione acuta, mortalità. L’IPC ha ribadito che tutte e tre queste soglie per la dichiarazione di carestia sono state raggiunte nel Governatorato di Gaza.

La carestia a Gaza non è il risultato di un disastro naturale, ma di azioni umane deliberate. Il rapporto dell’IPC, i funzionari delle Nazioni Unite e le organizzazioni per i diritti umani affermano esplicitamente che la carestia è “interamente provocata dall’uomo” (entirely man-made). Il Sottosegretario Generale per gli Affari Umanitari e Coordinatore degli Aiuti di Emergenza delle Nazioni Unite, Tom Fletcher, ha dichiarato che è stata “causata dalla crudeltà, giustificata dalla vendetta, resa possibile dall’indifferenza e sostenuta dalla complicità”, e che è il risultato diretto di una “ostruzione sistematica da parte di Israele”.
Quello a cui stiamo assistendo è, invece, propaganda. Perché l’accesso è monopolizzato (influencer selezionati sì, reporter indipendenti no), perché non viene chiarito a monte che i soggetti in questione sono stati invitati e che il contenuto è stato sponsorizzato da un agente statale. Perché si usano clip decontestualizzate (un deposito pieno) per negare la carestia a Gaza. Perché si attaccano le controparti (in primo luogo le Nazioni Unite) in modo sistematico, a priori, per delegittimare la loro posizione e predisporre il pubblico a negare l’eventuale smentita. Se inquadri solo il magazzino, la carestia scompare dallo schermo. Non dai registri ospedalieri.
Cosa significa “verificare” (e perché costa)
Verificare in guerra non è uno slogan: significa separare ciò che vedi da ciò che deduci, geolocalizzare quando possibile ciò che includi nei tuoi rapporti, fissare riferimenti temporali affidabili e custodire i file originali, cercare dissensi informati (medici, logistica degli aiuti, diritto umanitario) e includerli nel quadro. Soprattutto, non pubblicare quando i buchi sono troppi e il quadro non è completo. Tutto questo costa: tempo, denaro, accesso, spesso sicurezza personale. Ma è proprio questo costo che protegge il lettore dall’illusione del backstage.
Quando questo metodo viene sostituito da contenuti senza contraddittorio, si produce una catena di danni: epistemico (la prova scenica viene scambiata per prova fattuale), democratico (policy e opinione pubblica si fondano su materiali non verificati), umanitario (negare l’evidenza su carestia e attacchi a strutture protette rallenta aiuti, corridoi e accountability). Infine, sfiducia strutturale: quando la verifica arriva, un’audience già addestrata al sospetto la respinge come “propaganda dell’altro lato”. Ecco perché, in guerra, il metodo conta più del formato.

Quella messa in atto da Israele non è semplice attività di pubbliche relazioni: è una guerra dell’informazione, che consiste nel controllare il proprio spazio informativo mentre si distrugge quello dell’avversario. I social media sono il vettore cruciale per la loro velocità, portata e basso costo. Permettono la rapida diffusione di “fake news” e la creazione di “camere dell’eco” (echo chambers), dove le narrazioni vengono rafforzate senza essere messe in discussione.
La campagna può essere intesa come un “attacco cyber-sociale”, che prende di mira la percezione umana piuttosto che i sistemi tecnologici. L’obiettivo non è hackerare un server, ma hackerare la comprensione pubblica della realtà. Lo scopo è seminare dubbio e confusione, rendendo difficile per il pubblico distinguere i fatti dalla finzione e, in ultima analisi, paralizzando la capacità di una risposta politica e pubblica informata.
La campagna di negazione non riguarda solo l’opinione pubblica; è anche una strategia per costruire una difesa contro future accuse di crimini di guerra. Il crimine di usare la fame come arma di guerra richiede l’intento. La narrativa pubblica del Governo di Israele nega costantemente qualsiasi politica di affamamento e incolpa altri (Hamas, Nazioni Unite) per i fallimenti nella distribuzione degli aiuti. In qualsiasi futuro procedimento legale presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) o la Corte Penale Internazionale (CPI), questo registro sarà utilizzato dagli avvocati della difesa per sostenere che non vi era alcuna politica deliberata di affamare i civili e che qualsiasi fame era una conseguenza non intenzionale di una guerra legittima.
Non buttiamo il bambino influencer con l’acqua sporca
La soluzione, in ogni caso, non è eliminare i creator dal paniere della informazione. La soluzione è alzare l’asticella.
Il caso del tour degli influencer ad agosto 2025, di cui tanto si discute in questi giorni, lo dimostra. Un gruppo di influencer israeliani e americani (perlopiù nell’orbita conservatrice) è stato portato ai siti della Gaza Humanitarian Foundation (la ONG messa in piedi per distribuire gli aiuti ai gazawi, dopo aver impedito l’accesso alle altre organizzazioni) per “smontare” l’idea di carestia. Video di magazzini pieni, clip di caffè aperti e perfino titoli da clickbait: il peggiore di tutti è probabilmente “5 migliori ristoranti di Gaza – Estate 2025 (Il genocidio non è mai stato così buono)”.
Ma quel materiale è prova scenica, non prova fattuale: i locali aperti servono una minoranza e spesso funzionano come hub di elettricità e internet. Immagini e post sono decontestualizzati dalla distruzione massiva del territorio, dalla dichiarazione ONU di carestia. In alcuni casi, mancando la verifica, potrebbero circolare immagini d’archivio spacciate per attuali.
Alla base c’è una questione di incentivi. Il giornalismo, imperfetto ma vincolato a etica, verifica e responsabilità, risponde al pubblico con accuratezza e rettifiche. L’influencer marketing risponde soprattutto a engagement e sponsor. La propaganda di Stato sfrutta questa asimmetria: fa passare i propri messaggi attraverso volti ritenuti autentici, aggira il filtro editoriale e alimenta echo chambers inconciliabili. Per alcuni quanto vedono sarà conferma di pregiudizi, per altri propaganda palese: a farne le spese sono i fatti, oggetto di costante erosione.
Eppure, basterebbero 30 secondi a capire come stanno le cose.
Domandiamoci: chi ha pagato il viaggio e garantito accesso? C’è un editor responsabile di riferimento con cui verificare il metodo applicato? Ci sono fonti terze citate o è solo “l’ho visto”? È reso esplicito cosa non è stato mostrato e menzionato, e perché? Sono previste rettifiche in caso di fatti che confutino quanto raccontato?
Se rispondendo a queste domande collezionerete almeno tre “no”, questa non è informazione: è propaganda, e distrugge un sano dibattito pubblico.
Ecco allora la soglia minima per chi vuole informare davvero: disclosure piena (chi paga/ospita), niente accessi esclusivi senza contraddittorio, link a dataset e fonti terze, correzioni visibili se emergono smentite documentate. Alle testate spetta il compito di co-produrre solo con creator che accettano standard redazionali adeguati. Le piattaforme dovrebbero assumersi la responsabilità di apporre etichette per contenuti sponsorizzati dallo Stato in aree di conflitto, dando priorità ai bollettini tecnici in emergenza e non privilegiando tramite i loro algoritmi contenuti emotivi e polarizzanti a scapito di analisi complesse e approfondite, impegnandosi anche a costruire archivi pubblici di sponsorizzazioni e accessi “embedded” per poter ricostruire anche in retrospettiva chi parlava per conto di chi.
Ovviamente poi ci sono le istituzioni, i governi: se apri ai creator, apri anche ai giornalisti. Se vuoi essere credibile, non temere il contraddittorio: invita dieci creator e dieci giornalisti, garantisci a tutti lo stesso diritto di accesso e libertà di riportare quanto vedono, fotografano o filmano.
Come informarsi (davvero) sui fatti
Insegnare a informarsi è un compito che dovrebbe esser svolto dalla scuola dell’obbligo. Non si tratta di scegliere un narratore a simpatia: si tratta di riconoscere il costo della verità. Chi entra in un ospedale appena colpito per raccontare, soccorrere, verificare, si espone perché tu possa leggere quanto è successo e regga anche alla prova contraria.
Mettere sullo stesso piano quel lavoro e un video “autentico” ma a copione non è solo ingiusto: è pericoloso. La verità non è un reel ben montato: è un metodo e, spesso, per chi lo pratica, è anche una ferita aperta. Che oggi, ha anche i nomi di Hussam, Mariam, Mohammed, Moaz e Ahmad: uccisi dal drone israeliano mentre svolgevano il proprio lavoro.
Questa lunga trattazione ha mostrato due facce della stessa strategia: il double tap che zittisce i testimoni e la campagna di influencer che riempie il vuoto con una realtà prefabbricata (se preferite, autentica campagna di disinformazione). È la saldatura tra guerra cinetica e guerra narrativa che mette in crisi regole, diritti e la possibilità stessa di raccogliere testimonianze e documentazione.

Contemporaneamente, la campagna di propaganda guidata da influencer è stata un assalto narrativo alla realtà della sofferenza di un’intera popolazione. Sfruttando la fiducia parasociale e l’autenticità percepita dei creatori di contenuti digitali, la campagna ha cercato di riempire quel vuoto creato dalla morte dei giornalisti con una realtà fabbricata, una in cui la carestia non esiste e la catastrofe è una “bugia di Hamas”. Questi non sono fenomeni separati, ma due facce di un’unica strategia: controllare la storia è importante quanto controllare il territorio.
La convergenza di queste tattiche pone una sfida profonda all’ordine internazionale basato sulle regole e all’ecosistema informativo globale. La risposta passa da meccanismi concreti: accesso indipendente per la stampa, corridoi di verifica, trasparenza e disclosure obbligatorie per i contenuti sponsorizzati, standard editoriali per chi vuole informare davvero. Solo così difendiamo vite, diritto internazionale e un dibattito pubblico basato su prove: non su performance.
La messa in scena non è una verifica.