“Ho fatto due lauree, un master, ma non trovo lavoro.” Oppure: “Sto facendo tanti sacrifici nello studio, ma nulla. Nessuno si accorge di me.” Sono variazioni dei lamenti che leggo sempre più spesso nei commenti, nei video su TikTok oppure nei DM, scrivendomi direttamente.
Una generazione cresciuta da genitori e nonni che hanno instillato la certezza che lo studio fosse la chiave universale per il successo professionale si trova oggi a fare i conti con una realtà più complessa e sfumata.

I numeri parlano chiaro e raccontano una trasformazione epocale: secondo i dati ISTAT 2023, l’Italia conta oggi oltre 4 milioni di laureati. Nel 2000 era laureato il 9,4% della popolazione, nel 1990 il 6,9% della popolazione italiana possedeva una laurea, mentre i dati più recenti (Istat e Almalaurea 2023) parlano del record del 30,6% di under 34 in possesso di laurea, anche se ancora sotto la media europea del 43,1%, ma con un trend in crescita costante. Eppure, il tasso di occupazione dei neolaureati a tre anni dal titolo si attesta al 77,8%: in crescita, ma ancora lontano dalle aspettative alimentate per decenni.
Il paradosso è evidente: mai come oggi abbiamo avuto una popolazione così istruita, eppure l’equazione “studio = lavoro garantito” sembra essersi definitivamente inceppata. Ma forse il problema non sta nell’equazione stessa, quanto nella nostra interpretazione di essa.
Lo studio è insostituibile, ma…
Sia chiaro fin da subito: lo studio mantiene il suo valore fondamentale e insostituibile. Come sosteneva Paulo Freire nel suo rivoluzionario Pedagogia degli oppressi, “l’educazione è la pratica della libertà”, quella che sviluppa il pensiero critico, la capacità di interpretare il mondo, di non subirlo passivamente.
Lo studio ci dà gli strumenti per decodificare la complessità, per non essere in balia degli eventi, per costruire una visione del mondo informata e consapevole.
Il problema non è dunque nell’istruzione in sé, ma nell’aspettativa meccanicistica che un titolo accademico costituisca automaticamente un lasciapassare per il mondo del lavoro. È come pretendere che avere la patente ci renda automaticamente piloti di Formula 1: la patente è necessaria, ma non sufficiente.
La società liquida e le nuove necessità
Viviamo in quella che Zygmunt Bauman ha definito “modernità liquida”, un’epoca in cui “le condizioni in cui agiscono i membri della società cambiano prima che i modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”.
In questo contesto fluido, la società contemporanea ha fatto emergere nuove necessità, prima fra tutte l’arte del raccontarsi. E qui serve una precisazione fondamentale: non parliamo della vanagloria social o del personal branding spicciolo dei cosiddetti “fuffaguru” che vendono sogni da Dubai a 19,99 euro. Parliamo di qualcosa di più profondo e autentico. Si tratta della capacità di dare senso al proprio percorso, valore alle proprie scelte, identità ai nostri gesti professionali.
Come spiegava lo psicologo cognitivo Jerome Bruner, “siamo creature narrative”: la nostra identità si costruisce attraverso le storie che raccontiamo di noi stessi. Questa non è psicologia da quattro soldi, ma neuroscienza: il nostro cervello organizza l’esperienza in forma narrativa, cerca connessioni, costruisce significati.
Nel mondo del lavoro, questo significa saper articolare non solo cosa abbiamo studiato, ma perché lo abbiamo fatto, come ci ha cambiati, quali competenze trasversali abbiamo sviluppato. La differenza è sostanziale: tra chi dice “ho una laurea in Lettere” e chi racconta “attraverso lo studio della letteratura ho sviluppato capacità analitiche, sensibilità culturale e competenze comunicative che mi permettono di interpretare bisogni complessi e tradurli in soluzioni creative” c’è un abisso. Non di sostanza, ma di consapevolezza e di capacità narrativa.
La rivoluzione della “transilienza”
Accanto all’arte del racconto, emerge una competenza ancora più rivoluzionaria: la transilienza. Questo neologismo, nato dalla fusione di “transizione” e “resilienza”, indica la capacità di traslare competenze da un lavoro o da un ambito della nostra vita all’altro, di reinventarsi mantenendo un filo conduttore coerente.
Soffriamo di un retaggio culturale che affonda le radici in un’epoca profondamente diversa dalla nostra. Un tempo in cui la vita lavorativa era paradossalmente più breve (si andava in pensione prima), ma anche le opportunità erano meno fluide e più predeterminate.
Oggi questo modello mostra tutte le sue crepe. L’economista Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, parla di “Quarta Rivoluzione Industriale” per descrivere una trasformazione che non tocca solo la tecnologia, ma il modo stesso di concepire il lavoro e la carriera. In questo nuovo scenario, la linearità è un lusso che sempre meno persone possono permettersi.
Due considerazioni emergono con forza cristallina:
Primo: avere accesso a un percorso di studi non crea automaticamente il lavoro, né ci rende necessariamente i migliori nel campo. Il mercato del lavoro si è saturato in molti settori tradizionalmente “di élite”, dal giornalismo all’architettura, dalla psicologia al diritto, mentre sono emersi nuovi ambiti (dal social media management alla user experience design, dal data analysis al community building) che spesso non hanno corrispondenti accademici diretti. È il fenomeno che l’economista Clayton Christensen chiamava “distruzione creativa”: nuovi settori nascono mentre altri si trasformano o scompaiono.
Secondo: cambia il mondo, ma cambiano anche le nostre prospettive personali. A vent’anni pensiamo di voler fare una cosa, a trenta ne desideriamo un’altra, a quaranta ne scopriamo una terza. E questo non è tradimento delle nostre scelte iniziali, ma evoluzione naturale. La capacità di reinventarsi è una forma di intelligenza, non di debolezza.
Competenze trasversali e storytelling personale
Nel settore privato soprattutto, non è più un titolo a definirci, ma le competenze che sappiamo mostrare e articolare. Anche le domande dei recruiter si sono evolute in tal senso: non è più “che titolo hai?” ma “che valore sai portare alla nostra organizzazione?” Oppure: “Come pensi che il tuo percorso possa dare supporto a questo ruolo?”.
E questo valore o supporto si costruisce attraverso un approccio integrato che comprende:
La narrazione coerente del percorso – Saper spiegare le proprie scelte non come una sequenza casuale di eventi, ma come un percorso sensato. Anche i cambi di rotta, gli errori, i ripensamenti possono essere raccontati come momenti di crescita e consapevolezza. Siamo noi a dare significato alle nostre scelte, non gli altri. Al massimo un recruiter potrà solo giudicare se siamo o meno aderenti alle caratteristiche ricercate.
La capacità di connettere esperienze diverse – Un lavoro estivo come animatore può aver sviluppato competenze di leadership; un hobby come il teatro può aver affinato capacità comunicative; un’esperienza di volontariato può aver insegnato la gestione di progetti complessi. La transilienza sta nel saper riconoscere e articolare queste connessioni.
L’aggiornamento continuo oltre i percorsi formali – Il lifelong learning non è più un optional ma una necessità. E non parliamo solo di corsi e certificazioni, ma di curiosità intellettuale, di capacità di imparare dai contesti più diversi. Ti mette ansia? Paura tutto questo? Io lo vedo di più come una possibilità di reinventarsi e avere occasioni come non mai, oltre gli schemi di vita prestampati che ci vogliono far credere.
L’intelligenza emotiva e sociale – In un mondo sempre più automatizzato, le competenze tipicamente umane come empatia, creatività, capacità di gestire l’ambiguità, diventano più preziose, non meno.
Le competenze del futuro
Il World Economic Forum, nel suo Future of Jobs Report 2025, (citato e stracciato, lo so, ma sempre illuminante) identifica le competenze più richieste nei prossimi anni: pensiero critico, creatività, leadership, social influence, intelligenza emotiva, ragionamento e risoluzione di problemi. Tutte competenze che si sviluppano trasversalmente, non in un singolo corso di studi.
Tra di esse, la “social influence” non è l’influenza di un content creator, ma proprio la capacità di conoscere e anticipare l’effetto delle nostre parole e azioni sugli altri.
L’antropologo Claude Lévi-Strauss parlava di “bricolage intellettuale”: la capacità di costruire soluzioni creative utilizzando gli strumenti culturali a disposizione, anche se non erano stati pensati per quello scopo specifico. È esattamente quello che serve oggi: una mentalità da bricoleur intellettuale, capace di combinare elementi diversi in modi inediti.
Il paradosso della sovra-qualificazione
Un fenomeno interessante emerge dai dati: la sovra-qualificazione. Secondo l’OCSE, il 25% dei laureati italiani lavora in posizioni per cui sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore. Ma questo dato, apparentemente negativo, può essere letto in chiave diversa: forse stiamo portando valore aggiunto anche in ruoli tradizionalmente “semplici”, elevandone la qualità e aprendo nuove possibilità di sviluppo.
Un laureato in Lettere che fa il cameriere non è necessariamente un “fallito”: potrebbe essere qualcuno che sta sviluppando competenze nel customer service mentre prepara il suo prossimo progetto imprenditoriale, o che ha scelto consapevolmente un lavoro che gli lasci tempo ed energie per la scrittura.
L’importante è la consapevolezza: trasformare quello che potrebbe sembrare un “ripiego” in un’opportunità di crescita e apprendimento. Caspita, signore e signori! Ritorniamo al punto di prima: siamo noi a dare un significato alle nostre scelte e non gli altri!
Una nuova alfabetizzazione
Non si tratta di sminuire l’importanza dello studio, ma di riconoscere che oggi è necessaria una nuova forma di alfabetizzazione. Accanto alla formazione tradizionale, servono:
- Competenze narrative: saper raccontare il proprio percorso in modo coerente e convincente.
- Capacità di autoanalisi: riconoscere le proprie competenze trasversali e saperle articolare.
- Flessibilità cognitiva: la capacità di passare da un dominio concettuale all’altro, di vedere connessioni non evidenti.
- Resilienza e adattabilità: saper gestire l’incertezza e il cambiamento come condizioni normali, non eccezionali.
- Pensiero sistemico: comprendere le interconnessioni, vedere il quadro generale senza perdere i dettagli.
Il nuovo contratto formativo
Forse è il momento di ridefinire il contratto tra formazione e società. Non più “studia questo e avrai quel lavoro”, ma “studia per sviluppare capacità di pensiero, poi impara a raccontare chi sei e cosa sai fare, e preparati a reinventarti ogni volta che sarà necessario”.
La frase dei nostri genitori non era sbagliata, era semplicemente incompleta. Oggi suonerebbe così: “Studia, studia, ma impara anche a raccontare chi sei, a riconoscere il valore delle tue esperienze, e a reinventarti quando serve”.
In un mondo che cambia alla velocità della luce, la vera competenza non è più sapere tutto, ma saper essere tutto ciò che serve, quando serve. E saper spiegare perché.