Lo ammettiamo, il paragone tra Ghost of Yōtei e Red Dead Redemption è così importante da essere un pizzico forzato. Eppure, così come sussiste un forte legame tra le opere cinematografiche di Akira Kurosawa e i western di Sergio Leone, fino ai film ben più recenti di Quentin Tarantino, giocando al videogioco di Sucker Punch Productions, strettamente imparentato – ma nemmeno poi così tanto – con quel Ghost of Tsunishima che non ci aveva convinto a fondo (qui la recensione della Director’s Cut) le analogie si fanno via via sempre più importanti.
Ghost of Yōtei, sguainate la katana
E non solo perché Ghost of Yōtei offre una interpretazione spinta, quasi macchiettistica e a tratti grottesca (molto americana, insomma) del Giappone feudale, che è poi classica delle software house occidentali che si trovano a doler sviluppare un videogame che sia autenticamente nipponico finendo però per sovvertire gli equilibri.

C’è persino una modalità in bianco e nero introdotta dichiaratamente per rifarsi al cinema di Kurosawa, ma tutto alla fine rimanda invece ai film fumettosi di Tarantino. E in fondo è giusto che sia così, dato che quella regia si adatta meglio a una platea del 2025.
“Le cavalcate per le sconfinate pianure nipponiche regalano la sensazione di trovarsi in un mondo di briganti. Le avevamo già provate indossando spolverino, speroni e cappello da cow boy in un continente lontano, molto più polveroso ma ugualmente selvaggio e senza scrupoli”
Ma anche sul fronte del gameplay Ghost of Yōtei si mette in scia all’opera dei Rockstar, senza ovviamente mai voler ambire a raggiungere l’epopea western imbastita dalla Casa di GTA tra Escalera, Chuparosa, Saint Denis e Valentine. Le cavalcate per le sconfinate pianure nipponiche regalano la sensazione di trovarsi in un mondo di briganti: le avevamo già provate indossando spolverino, speroni e cappello da cow boy in un continente lontano, molto più polveroso ma ugualmente selvaggio e senza scrupoli.
Anche qui c’è una storia di vendetta che sconfina nella redenzione. Con la differenza che la giovane Atsu, l’implacabile macchina da guerra che viene messa in moto erroneamente dai “Sei di Yōtei” ha tratti sovrannaturali che si riverberano anche nelle meccaniche di gioco quando esaudendo determinate condizioni è possibile sfoderare tecniche soverchianti per gli avversari più comuni. Ma non per i sei briganti che Atsu ha giurato di infilzare come sushi: anche loro infatti non si riveleranno combattenti normali. E ci saremmo sorpresi dell’opposto. In questo modo i combattimenti all’arma bianca – o con rudimentali armi da fuoco – saranno lunghi ed estenuanti, altamente filmici.

Rispetto a Ghost of Tsushima, il cui ricordo non affolla mai le partite a questo nuovo titolo, Ghost of Yōtei è un’opera ludica molto più variegata e pure leggermente meno arcade, con un sistema di combattimento più evoluto che invoglia il giocatore a provare vari tipi di armi e tante side-quest che invogliano a battere sentieri sconosciuti per sfide spesso parecchio guidate e che nulla aggiungono alla trama ma che rivelano piccoli scrigni naturali realizzati con sapienza.
“Rispetto a Ghost of Tsushima, il cui ricordo non affolla mai le partite a questo nuovo titolo, Ghost of Yōtei è un’opera ludica molto più variegata”
Del resto la cura per la grafica è forse l’aspetto più nipponico dell’intera composizione dato che gli sviluppatori hanno dato fondo alla propria abilità per trasportare in un mondo poligonale gli scenari di quelle antiche stampe giapponesi che tutti noi abbiamo bene in mente. Si resta così spesso attoniti di fronte ai panorami che si aprono dinnanzi a noi, resi ancora più evocativi da un sapiente uso della telecamera.

Grande cura è stata riservata all’uso delle specifiche uniche del DualSense, il controller di PS5. In particolare il touch pad è chiamato spesso in ballo, a volte forzatamente, come quando bisogna scrivere su pergamena o suonare uno strumento, altre volte per chiamare quel “vento” magico che saprà guidarvi in modo silenzioso e discreto, senza “mappe GPS” a schermo.
“Grande cura è stata riservata all’uso delle specifiche uniche del DualSense, il controller di PS5. In particolare il touch pad è chiamato spesso in ballo“
Inizialmente il titolo appare sfacciatamente arcade come il suo predecessore spirituale che di fatto prendeva in prestito le ambientazioni del Giappone feudale per usarle come ring di tanti scontri tutti uguali che prevedevano di accanirsi sul controller con foga, senza la minima strategia, ma bastano un paio d’ore per capire che Ghost of Yōtei ha fatto tesoro degli errori commessi in passato dal team di sviluppo e si configura come un videogame assai più profondo e maturo.
Non tutto è perfetto: potremmo per esempio dire che le fasi stealth oltre a essere ingiustificate quando si controlla una simile forza della natura (il nostro consiglio è di iniziare direttamente dalla modalità Difficile, ma anche in quella Normale coi nemici più forti si muore spesso) sono sempre un po’ banali per colpa di una AI nemica che non brilla, ma abbiamo comunque apprezzato che la struttura di accampamenti, fortini e persino dei castelli sia stata studiata seguendo i canoni di Assassin’s Creed, permettendo quindi di scegliere tra più vie.
Non bisogna forzatamente essere amanti del Sol Levante (noi comunque lo siamo) per apprezzare Ghost of Yōtei, avventura fortemente votata all’azione ma comunque realmente e abilmente immersa nel contesto storico e artistico che voleva ricreare sullo schermo dei nostri salotti. E poco importa se le caratteristiche della nostra Atsu la rendano più simile a una supereroina da comic americano piuttosto che una ronin del Giappone rurale del XVII secolo, perché la formula alchemica alla base di questo videogame è tale che difficilmente vi verrà voglia di scollarvene prima dei titoli di coda.