Le startup che hanno una valutazione superiore al miliardo sono in aumento. E non solo in Silicon Valley. Europa e Cina seguono a ruota. Le prossime? Per Atomico verranno da sanità, istruzione e immobiliare
Dello Startup Europe Summit svoltosi giovedì e venerdì scorso a Berlino a livello emozionale resteranno una serie di fotografie mentali scattate in fretta, mentre gli eventi si accavallavano l’uno con l’altro e ci si muoveva fra i due palcoscenici principali.
Il grande imprenditore, oggi investitore, israeliano Yossi Vardi che parla un po’ con l’intonazione e la cadenza del vecchio Jonathan, l’aiutante di Bud Spencer e Terence Hill in “Lo chiamavano Trinità” (ma è decisamente meno macchietta) e dice che ormai preferisce lavorare solo con ragazzi svegli e “nice”, perché alla sua età, per trattare con gente che non è capace di stare con gli altri non ha proprio più tempo, né voglia.
Lo stare sul palco di Neelie Kroes, l’ultrasettantenne ex vice presidente della Commissione che tanto ha fatto per promuovere il digitale in Europa: dritta, eretta, la voce esile, ma le parole ben scandite. L’idea di una persona priva di fronzoli, o quasi. Il sorriso scaltro di Andrus Ansip l’attuale vice presidente che ha sostituito (con altri due politici) Kroes.
A livello di contenuti invece, il talk forse più interessante è stato quello di Tom Wehmeier, direttore della ricerca del fondo di investimento Atomico, che ha sede a Londra ed uffici in tutto il mondo. La presentazione di Wehmeier si intitolava “Great companies can come from anywhere” ed era il sunto di uno studio iniziato lo scorso ottobre con lo scopo di illustrare crescita e distribuzione geografica delle società con valutazione pari o superiore al miliardi dollari (i cosiddetti “unicorni”). Dall’intervento sono emerse diverse cose interessanti.
La collocazione geografica
Contrariamente al sentir comune, la maggior parte degli unicorni oggi ha sede al fuori di Silicon Valley. Su 159 società censite a gennaio 2015 e nate a partire dal 2003 solo poco più della metà (58) hanno sede in California. E il divario sta crescendo: fino al 2010 il rapporto era più o meno di uno ad uno (per ogni unicorno nato nella Valley, ne nasceva uno altrove). Oggi il ritmo con cui nascono gli unicorni nel resto del mondo è molto superiore a quello della Costa Ovest. I motivi sono diversi. L’esplosione del mercato cinese è senz’altro uno dei principali – l’Asia è l’altro polo di forte espansione tecnologica. L’altro è la diffusione capillare di Internet in ormai quasi tutte le zone del mondo, grazie anche a tablet, smartphone e alla possibilità di connessioni in mobilità anche dove non esistono infrastrutture da paese sviluppato.
Poli tecnologici a forte densità di “unicorni” per abitante.
Se non si vanno a guardare i valori assoluti, ma si presta attenzione invece alla densità di innovazione – ovvero il numero di società miliardarie in rapporto al numero di abitanti, si ottiene una classifica curiosa. Se in cima c’è sempre la Valley, con 7,4 unicorni per milione di abitanti, al secondo posto (6,3) c’è Stoccolma seguita da Seattle. Più staccate Berlino, Pechino, Los Angeles, New York, Helsinki e Londra, che finisce solo nona. Ovviamente questo non significa che Stoccolma sia un centro più importante di Londra per flusso di capitali e opportunità di investimento complessivo, ma dà l’idea di quanto nazioni come la Svezia abbiano saputo trarre profitto dall’opportunità dell’hi-tech, pur con un ecosistema di peso complessivamente minore.
Ne nascono sempre di più e sempre più velocemente.
Fra il 2003 e il 2009 sono nati 8 unicorni. Un anno dopo, nel 2010 erano 11. Due anni dopo 28. Tre anni dopo, nel 2012, erano in tutto 46. Dopo quattro anni, nel 2013 91. A gennaio 2015, come già accennato, erano 159. Non solo, ma sta aumentando anche la velocità della scalata. Se fra il il 2003 e il 2008, soltanto 9 società erano riuscite a raggiungere lo status di unicorno in tre anni o meno dalla fondazione, nel quinquennio successivo avevano passato con la stessa rapidità tale soglia, in 24. Secondo le stime di Atomico, entro il 2025 le società con valutazione superiore al miliardo saranno più di 300.
Immobiliare, sanità ed istruzione i prossimi bersagli
In quali settori nasceranno i prossimi unicorni? Certamente ancora in settori come il retail, le comunicazioni, il gaming e i servizi finanziari, già ben sfruttati in questi ultimi anni. Ma è probabile che molte opportunità nasceranno dallo sconvolgimento di settori che rappresentano percentuali importanti del Pil, ma che finora sono stati relativamente poco toccati dalla rivoluzione digitale. Settori appunto come immobiliare, istruzione e sanità che rappresentano in media fra il 6% e l’8% del Pil ciascuno. Certo, si tratta di settori altamente regolamentati, per cui può darsi che i tempi di ingresso siano più lunghi del normale, e che si incontrino più resistenze, come del resto è avvenuto per Uber nel campo della mobilità. Ma la tendenza sembra essere già in atto.
Se Ceo e team rimangono gli stessi si cresce meglio
Fino a qualche anno fa, non appena una startup iniziava ad avere seriamente successo, gli investitori preferivano mettere al timone una persona esperta, in grado di gestire il passaggio e far rendere al meglio l’azienda. Se le cose sono cambiate, è stato in gran parte grazie a Facebook. Zuckerberg ha fatto scelte coraggiose (come sborsare miliardi per Instagram e WhatsApp), andando spesso contro i consigli dei “saggi” e dimostrando che non sempre gioventù e mancanza di esperienza costituiscono un handicap, anzi. Oggi l’86% delle società analizzate da Atomico è stata guidata alla soglia del miliardo di valutazione dal Ceo nominato al momento della fondazione. E nel 94% dei casi conserva lo stesso nucleo fondativo di ingegneri e responsabili di prodotto.
Ma in fondo importa?
Questo non c’era, nell’intervento di Wehmeier, ma una domanda che è lecito farsi, ora che l’assegnazione di valutazione stratosferiche è diventata così frequente è: sono valori giustificati? Oppure si tratta di un’etichetta “arbitrary as fuck” come ha detto di recente il fondatore di Slack Stewart Butterfield, anch’egli entrato da poco nel club con la sua startup.
Il titolo di unicorno non è un mero dato finanziario, ma un asset vero e proprio che serve a dare status e credibilità a un’azienda; può essere attribuito quindi anche in funzione strumentale, e non è affatto escluso che questo sia avvenuto in un certo numero di casi. Butterfield su questo è stato piuttosto onesto, spiegando che non avrebbe accettato una valutazione di – ad esempio – 800 milioni di dollari e rotti: o il miliardo, o niente.
Questo non significa che non ci siano ragione oggettive, alcune delle quali già citate che giustifichino il proliferare di animali mitologici. Una, ad esempio, è l’eccezionale disponibilità di capitali di cui in questo momento dispongono molte aziende molti fondi americani. Che poi questa fase felice continui, e che alla sospirata valutazione segua un comportamento sul mercato congruo, è tutto da vedere. Casi come quelli di Fab.com, il sito di e-commerce che ha visto ridursi drasticamente negli ultimi due anni la propria capitalizzazione dimostrano che la strada verso il regno degli unicorni non è facile, né a senso unico.