La finanza islamica ha leggi proprie. Venture capital, business, investimenti. Anche nella digital economy. Ecco come funziona la Sharia per le startup
Dimenticate tutto. Le regole del gioco sono diverse: è vietato accumulare debiti e concedere prestiti. Quindi niente leva finanziaria e business basati sulla riscossione di interessi: chi impiega denaro deve partecipare all’impresa oppure fare da tramite per leasing o accordi di vendita e riacquisto. Niente affari legati ad alcol, carne di maiale, armi, pornografia.
Sono le norme della finanza islamica, che ubbidiscono ai vincoli della Sharia. Regole che escludono di netto il sistema del credito convenzionale (basato su un prestito bancario rimborsato con gli interessi) ma non l’intervento di business angel, venture capital e crowdfunding. Anche se con alcune differenze.
Esiste ancora una sproporzione tra la popolazione musulmana (pari al 25% di quella mondiale) e il peso degli asset che rispettano la Sharia (l’1% del totale). Un dato che racconta le caratteristiche del mercato e dimostra le sue potenzialità: nel 2012 valeva 1,6 trilioni di dollari; nel 2018 ne varrà 2,47.
Come fare finanza, senza leva
Una startup che voglia obbedire alla legge islamica dovrà regolarsi di conseguenza. Può bussare alla porta delle banche islamiche e scegliere l’opzione murabaha (con l’istituto che acquista i beni e li rivende allo stesso prezzo al cliente) o ijarah (il leasing islamico). Oppure potrà attingere da altre fonti. «L’approccio degli investitori è simile”, afferma Paolo Pietro Biancone, professore dell’Università di Torino e direttore dello European Research Center for Islamic Finance. “Ma la selezione del business e le modalità di finanziamento richiedono una maggiore cautela».
Il più delle volte, l’intervento è un equity puro, detto musharakah, nel quale il finanziatore entra nel capitale e condivide rischi e profitti secondo una distribuzione decisa in partenza.
«La redditività potrebbe essere minore perché non si fa ricorso alla leva finanziaria. Ma questo rende l’investimento anche più stabile, perché il sistema è più patrimonializzato», spiega Biancone. Meno rischi e redditività, più stabilità. La trafila che va dal seed all’equity si accorcia.
Si privilegiano imprese più mature rispetto ai finanziamenti delle prime fasi. E si opta per un intervento a medio-lungo termine e non per reinvestimenti.
Sono quindi più rari i finanziamenti per round successivi. E anche l’idea di venture capital è ammorbidita: è più raro che un investitore punti su diverse startup con l’idea di una exit dall’elevata redditività.
Il TripAsvisor della preghiera
Un sistema economico con regole proprie (ma aperto anche ai non musulmani che decidano di seguirle) plasma le imprese. Attraverso il sistema finanziario ma anche tramite la ricerca di nuovi prodotti.
Alcune startup hanno creato dei corrispettivi islamici di strumenti già esistenti. Come ad esempio Executive Muslim, un LinkedIn in sintonia con la Sharia. Oppure Zilzar, una piattaforma di e-commerce fondata nel 2014 sul modello Alibaba che vende solo prodotti halal (cioè leciti). Niente alcolici, certo. Ma sono esclusi anche prodotti che contengono grassi animali (nei prodotti cosmetici, ad esempio) e gli abiti non conformi alle regole.
Stessi principi per My halal kitchen, una sorta di GialloZafferano che suggerisce come cucinare senza alcol e carne di maiale. In un mondo plasmato dalla religione, c’è anche Musallah. L’app, sviluppata a New York, è il TripAdvisor dei luoghi di preghiera. Individua spazi (comuni o privati) dove recarsi per pregare. Con tanto di stelline per valutare la propria esperienza.
Islamica, ma non solo per musulmani
Si tratta di un ecosistema ancora abbozzato. E disomogeneo: a Londra, ad esempio, esiste già un fondo (pubblico) per le startup ad hoc, il Financing Sharia Enterprise. La Gran Bretagna è il mercato più avanzato: ospita cinque banche islamiche pure e una ventina di sportelli dedicati di altri istituti.
«La funzionalità della finanza islamica a livello retail e per le startup – dice Biancone – crea visibilità per un mondo a caccia di investimenti importanti». I miliardi, al momento, sono altrove: nelle casse dei fondi sovrani, che puntano su immobiliare e marchi occidentali di prestigio. Per attirarli bisogna giocare su tutti i tavoli: non si può ignorare il retail se si vuole dialogare con i grandi player.
In Italia a che punto siamo? «Se i grandi investitori mostrano interesse, dal punto di vista retail siamo ancora lontani dall’idea di un fondo pubblico come quello britannico e alle prese con una domanda disomogenea».
In Italia già c’è
Anche in Italia, però, esistono già alcuni investimenti compatibili con la Sharia. Ma hanno un’altra etichetta. “Potremmo puntare, per cominciare, su fondi che investano in startup etiche”, suggerisce Biancone. Sono spesso la versione laica di quello che la finanza islamica fissa in un quadro religioso.
Un’opportunità, anche perché si rivolge a una platea in crescita: i musulmani in Italia sono 1,6 milioni. «Il credito si rivolge meno a startup innovative, ma più spesso a piccole imprese di ristorazione o ristrutturazioni». Ma, in vista di uno sviluppo futuro, bisognerebbe attrezzarsi. “Una fatwa – spiega Biancone – consente di utilizzare la finanza occidentale se ci si trova in Paesi che sono privi di istituti islamici”. Ecco perché in Italia ci sono musulmani che hanno un conto corrente o hanno chiesto un mutuo. Ma altri islamici “producono ricchezza che non rimane sul territorio e viene inviata nel Paese d’origine”. Dove è più agevole avere mutui o fare investimenti che ubbidiscono alla Sharia.
“Creare un ambiente favorevole alla finanza islamica – conclude Biancone – può essere un beneficio per tutti e non solo per i musulmani”.
Paolo Fiore