Alle Poste molto presto potrebbe non essere più possibile spedire una lettera o una cartolina. Ammesso che ci sia ancora qualcuno intenzionato a farlo. Chi è entrato di recente in uno degli uffici postali del Paese avrà notato che Poste Italiane ormai vende servizi finanziari, assicurazioni, prodotti previdenziali e persino abbonamenti luce e gas, telefonia mobile e Rete Internet. Fa insomma tutto tranne che ciò per cui sarebbe nata. Da qualche tempo è persino possibile sfruttare gli sportelli per il rinnovo del passaporto.
Niente più corrispondenza?
Che il core business di Poste Italiane non sia più la corrispondenza, sostituita velocemente da e-mail e WhatsApp era insomma nell’aria da tempo. Ma l’amministratore delegato di Poste Italiane Matteo Del Fante è andato oltre e, in audizione in Parlamento, ha espressamente dichiarato che allo stato attuale non c’è convenienza nel fornire il cosiddetto “servizio universale”, ovvero l’insieme minimo di standard e opzioni che un fornitore di servizi pubblici, che sia esso pubblico o privato, è tenuto a rispettare.
Secondo Del Fante, solo il 5% delle operazioni svolte negli uffici postali hanno ormai a che fare con il servizio universale. Lo Stato dovrebbe compensare il gestore che si fa carico del servizio per le spese sostenute, ma – esattamente come già visto con i gestori di SPID, l’identità digitale – secondo Del Fante negli ultimi dieci anni Poste Italiane sono state sottopagate.
La nuova vita di Poste Italiane
Il Gruppo, il cui capitale sociale in mano pubblica è detenuto nella misura complessiva del 64% (di questo in via diretta, la quota del Ministero dell’economia e delle finanze è pari al 29% cui si aggiunge quella, in via indiretta, per il tramite di Cassa Depositi e Prestiti, al 35%) si è mosso comunque con lungimiranza negli anni ben interpretando il cambiamento in atto. Tant’è che i numeri parlano di un fatturato di 12 miliardi di euro per il 2023, con ricavi in crescita del 2% rispetto al 2017 – anno in cui si passò alla nuova gestione aziendale – e anche gli utili netti sono cresciuti del 19%, per un totale di 1,9 miliardi.
Ma Poste, che ormai è concentrata su altro, sembra sempre meno intenzionata a fornire il servizio universale. Il contratto tra Poste e Stato scade a fine 2024, poi subentra un periodo di proroga automatico di 16 mesi. Bisognerà insomma vedere cosa succederà nella primavera del 2026, termine entro il quale le parti dovranno trovare un accordo.
Non dimentichiamo che proprio in questi giorni il governo Meloni, spinto dall’esigenza di fare cassa, sta procedendo di buona lena con l’alienazione di una parte della partecipazione detenuta dal MEF in Poste Italiane S.p.a., che determini il mantenimento di una partecipazione dello Stato al capitale di Poste Italiane, anche per il tramite di società direttamente o indirettamente controllate dal Ministero dell’economia e delle finanze, superiore al 50%. Più Poste diventa privata, insomma, più aumenta il rischio che gli azionisti storcano il naso di fronte a spese superflue.