Un bilancio presidente di Italia Startup ad un anno dalla sua nomina al vertice dell’associazione. La difficile meta del miliardo di investimenti, l’hype delle startup e il ruolo di Confindustria nell’associazione
L’intervista originale conteneva un errore importante che è stato corretto nel giro di qualche ora e per il quale abbiamo cambiato anche il titolo. Per trasparenza nei confronti dei lettori è giusto darne conto. Il presidente di Italia Startup infatti ha erroneamente confermato le dimissioni di Paolo Barberis che non ci sono state e da questo fatto ne ha tratto delle conclusioni per il futuro dell’associazione. Dopo la pubblicazione ci ha scritto scusandosi per la confusione che ha ingenerato con quella risposta e ci ha chiesto di correggerla. E quindi ricapitolando: Riccardo Donadon si è effettivamente dimesso, Paolo Barberis, che è anch’egli socio fondatore dell’associazione, no. Resta al suo posto per dare il suo contributo.
Un anno fa era il nome nuovo delle startup in Italia. Marco Bicocchi Pichi, 55 anni, di Lugano ma cresciuto a Torino, a luglio 2015 fu eletto presidente di Italia Startup. La più grande associazione italiana di startup e di stakeholder. 1600 associati. Ne prese la guida dopo l’uscita inattesa di Riccardo Donadon, impegnato nella quotazione in Borsa di H-Farm. In un momento cruciale per le startup, e per l’associazione. Il mercato delle startup che non decollava, la necessità di trovare posizione nel panorama dell’industria in Italia, e quella di portare a maturazione l’ecosistema dopo 3 anni di leggi, registri, e discussioni sulle startup. Per farlo prese una serie di impegni precisi da portare a termine entro tre anni. Un miliardo di investimenti in startup, più dialogo tra gli hub nazionali, e meno tasse a chi investe in startup. Abbiamo chiesto al presidente dell’associazione un primo bilancio oggi, che è al primo giro di boa dei tre a sua disposizione.
Luglio 2015, luglio 2016. Un anno alla presidenza di Italia Startup, che bilancio fa del primo anno di mandato?
«Che c’è una forte crescita del numero degli associati. Siamo 1.600 adesso e abbiamo quasi triplicato gli iscritti da 600 che erano. Credo sia un risultato importante che mostra che l’associazione ha una forte capacità di attrazione verso le startup».
Si tratta di associati che versano la quota annuale?
«In realtà sono cresciuti molto di più quelli gratuiti che a pagamento. Il budget, dobbiamo dirlo, non è aumentato proporzionalmente al numero dei nuovi associati. E’ questa la sfida della mia presidenza oggi».
Qual è il budget che ad oggi avete grazie alle tessere?
«200 mila euro. Un budget modesto in realtà perché il costo della struttura di quei 200 mila ne assorbe una parte significativa. Vorremmo offrire servizi più avanzati, ma servono più soldi. Quest’anno abbiamo agito molto sul lato dei corsi professionali e sulla cultura del fare startup in Italia. E lo ritengo un grande obiettivo».
Un bilancio positivo, che però non sembra soddisfarla del tutto.
«Abbiamo soprattutto continuato quanto fatto finora, penso al lato internazionalizzazione e presenza di Italia Startup all’estero. Il bicchiere è a metà e può essere visto sia mezzo pieno che mezzo vuoto. Non sono ancora del tutto soddisfatto, possiamo fare meglio. Io ho l’obiettivo chiaro di patrimonializzare l’associazione per investimenti nello sviluppo e nei servizi che offriamo alle startup».
Quali considera gli obiettivi primari da raggiungere prima della scadenza del suo mandato?
«Continuare nella direzione di consolidare il nostro ruolo di facilitatori di sistema. Adesso vogliamo lavorare con altre associazioni per ottenere un miliardo di investimenti in startup ogni anno in Italia».
Era uno dei tre punti elencati un anno fa quando la elessero presidente, ma siamo ancora lontani da quella meta. Cosa non ha funzionato?
«Noi abbiamo lanciato questo obiettivo, ma non abbiamo ancora smosso, se non all’inizio, il legislatore. Ci stanno ascoltando ma vorremmo che la politica aiutasse ancora chi investe in startup con sgravi fiscali. Dall’altra parte, il sistema privato è molto, molto lento. Io non sono pessimista, vedo una crescita ad ogni evento a cui partecipo. Ma c’è troppa prudenza e troppi freni. E poi non dobbiamo dimenticare che il sistema, in generale, è ancora critico. C’è la crisi delle banche, una scarsa propensione a fidarsi di chi vuole investire. La situazione non è ottimale per arrivare a quell’obiettivo, ma qualcosa si sta muovendo».
Per molti il motivo è anche culturale. Perché è così difficile diffondere in Italia la cultura delle startup?
«E’ un obiettivo di tutti e non abbiamo ancora vinto. La battaglia culturale delle startup le vede ancora perdenti e lontane dal tessuto produttivo italiano. Dobbiamo ancora convincere gli imprenditori che gli startupper sono loro pari. E non dei wannabe. Ma anche tutto il sistema continua a non capire che sono un settore particolare dell’economia. Che le startup hanno bisogno di investimenti veloci, risposte veloci, e crescere con altrettanta velocità. Per non parlare del tema delle exit e dell’idea che fare startup per venderla non è il male, che non si tratta di squali o di persone che una volta vendute le quote si vanno a spendere i soldi ai Caraibi. Queste sono le difficoltà che incontriamo. C’è tanto, tanto lavoro da fare».
Il sistema privato è molto, molto lento. Io non sono pessimista, vedo una crescita ad ogni evento a cui partecipo, ma difficile così raggiungere un miliardo di investimenti in due anni
Nel suo anno di presidenza sono entrati nel direttivo alcuni esponenti di Assolombarda. Comprensibile, se consideriamo che uno dei tre punti che ha elencato per la sua presidenza era di aprire le aziende alle startup, con tutte le difficoltà e le polemiche del caso. Quali sono le strategie che avete adottato con l’associazione degli imprenditori della Lombardia?
«Considero molto positivo il fatto che abbiano voluto subito sinergie con Italia Startup. Con loro c’è sempre un confronto aperto e diretto e un dialogo costante. Una delle cose fatte insieme è che le startup lombarde hanno associazione gratuita, cosa che succederebbe con tutte le regionali di Confindustria se ci chiamassero. Loro ci sostengono finanziariamente con il discorso dello Smau, a breve pubblicheremo uno studio fatto con loro. Per il resto ci invitano spesso ai loro eventi, io ci partecipo sempre. C’è uno scambio anche continuo di informazioni. Ci retwittiamo».
Vi retwittate?
«Si è importante una comunicazione costante anche sui social».
Lato inverso, sono usciti dall’associazione alcuni profili di primo piano come Riccardo Donadon. Cosa è successo?
«Molto semplicemente: c’è una cosa positiva successa nell’ultimo anno ed è che l’associazione si è rafforzata. Quindi oggi nessuno più guarda se c’è un nome o ne manca un altro, ma guarda nel complesso cosa fa l’associazione. L’associazione è cresciuta e adesso non ha più bisogno che ci siano nomi di persone note nell’ecosistema. Donadon ha quotato in borsa H-Farm. Ha deciso di fare un passo indietro per fare spazio ai giovani. Per me il suo andare via è stato un atto di grande generosità, ha fondato l’associazione, adesso lei cammina da sola. Come un genitore con un figlio».
L’associazione è cresciuta e adesso non ha più bisogno che ci siano nomi di persone note nell’ecosistema.
In questi mesi sui social si è notata molto la sua preoccupazione per la questione degli “hype” delle startup, denunciandone alcuni in prima persona. Pensa davvero che in Italia ci sia un rischio di gonfiare alcune startup?
«Secondo me c’è un rischio di confondere la comunicazione con la sostanza. Il sistema è ancora fragile e debole e c’è il rischio che scoppi una bolla».
Che tipo di bolla?
«Che qualcuno racconti che ha fatto 100 invece ha fatto 5. Queste cose ridimensionano poi tutto l’ecosistema, non ci si crede più, si pensa che sia tutta fuffa».
Rigiro la domanda: crede che in Italia ci sia fuffa sulle startup?
«C’è fuffa ed è normale che ci sia. C’è ovunque. A Londra a Berlino, negli Usa. E’ normale che nel mezzo di una corsa all’oro ci siano molti team improvvisati. Però secondo me la maggior parte non è così. C’è anche il fatto che molte di quelle iscritte nel registro delle imprese non sono vere startup. Hanno caratteristiche formali ma non sostanziali per essere imprese innovative. Ma detto questo, noto anche che cominciano ad esserci team science based e aziende davvero interessanti».
Dopo un anno, che immagine si è fatto dell’Italia delle startup?
«Che abbiamo ancora troppi imprenditori alla prima esperienza. E troppi investitori alla prima esperienza. E’ normale che sia così. Si può accelerare, ma non si può accelerare più di tanto Ci vogliono dieci anni per completare un ciclo tra startup di prima generazione, primi fondi, primi investimenti. Noi non possiamo che andare meglio, stando alla situazione attuale».
So che ha scritto un libro in una notte dopo l’evento di Saint Vincent organizzato da Digital Magics: di cosa parla e cosa l’ha ispirata in quei giorni?
«Più che un libro è un articolo troppo lungo per essere pubblicato. Mi è venuta l’ispirazione dopo l’evento di Digital Magics, e volevo dire il mio pensiero sul mondo dell’Open Innovation».
C’è fuffa ed è normale che ci sia. C’è ovunque. A Londra a Berlino, negli Usa.
Siamo curiosi.
«Penso che l’Open innovation sia un tema cruciale per il futuro delle startup in Italia. Ma non dobbiamo pensare l’open innovation come acquisizione di startup da parte di Pmi e aziende. Ma anche come realizzare i sogni nel cassetto dell’imprenditore. Cose che magari lui aveva in mente ma non ha potuto realizzare. Per non incrinare i rapporti interni dell’azienda, le gerarchie. Oppure può essere che diventi la possibilità da dare ad un figlio di dimostrare di essere un bravo imprenditore. Senza metterlo a giocare con l’impresa di famiglia. Io la vedo come opportunità di generare più cose. Non solo rigenerare azienda più anziana ma anche come sistema aperto, di rete tra imprese, startup, e nuovi talenti».
Arcangelo Rociola
@arcamasilum