Gli esempi di chi ce l’ha fatta, come ha fatto a crescere un’azienda negli Usa, difficoltà, prospettive. Sei storie di startup italiane negli USA
Da New York a Los Angeles, passando per Boston e Kansas City, le startup italiane cercano – e a volte trovano – l’America in tutti gli angoli degli States, impegnandosi nei business più diversi. Ecco qualche storia con un bilancio degli errori e delle lezioni imparate nel 2015, con i “buoni propositi” per il 2016.
New York attrae un numero crescente di imprenditori dall’Europa, per la vicinanza fisica e culturale, oltre che per l’ampia disponibilità di capitali “di rischio” e di pubblico disposto a sperimentare nuovi prodotti. Fra gli altri si sono stabiliti qui Silvia Bosio e Paolo Bonaccorsi, fondatori di W-Lamp, azienda specializzata nel “decontestualizzare la carta dai suoi tradizionali ambiti d’impiego, ampliandone lo spettro d’applicazione e coniugandola con tecnologie innovative” (così si legge sul suo sito ) e Matteo Rignanese con la sua 2NYC, società di “eMotion learning”.
Nel 2015 W-Lamp ha visto crescere del 50% le sue vendite, raggiunto una sessantina di clienti negli Stati Uniti (da wholesaler a catene di negozi e siti di vendite online), attivato collaborazioni con marketplace come Dawanda.com, Wayfair.co.uk e Maketank.it, e ha aperto una esposizione permanente dei suoi prodotti nella torrefazione Brooklyn Roasting Company, che ospita mostre d’arte e di design. «Un’altra importante novità – raccontano Silvia e Paolo – è stato l’accordo con DYNOMIGHTY per l’apertura di un booth a Hong Kong per incontrare i buyer della grande distribuzione americana». Decisioni sbagliate? «Errori di valutazione nella scelta dei partner in USA e in Italia, rivelatisi inaffidabili o incapaci di sviluppare il business – dicono i due fondatori -. Errori commessi per inesperienza e ingenuità. Abbiamo azzerato la situazione e siamo ripartiti».
Il nuovo progetto per il 2016 è W-Lab: «la realizzazione di un ecosistema di oggetti intelligenti e dai comportamenti personalizzabili, in grado di parlare tra di loro e con il mondo – spiegano Silvia e Paolo -. Vogliamo creare oggetti di design ad alto contenuto tecnologico di qualsiasi genere, dalle lampade ai mobili, passando attraverso i gadget, come robot e aeroplani, utilizzando la carta e il cartone in tutte le loro forme. In altre parole, creare in carta quello che non ci si aspetterebbe fatto in carta, con il supporto delle più moderne tecnologie digitali. Per esempio una lampada che reagisce a specifici hashtag, impostati dall’utilizzatore, variando colori o emettendo dei suoni». Un prodotto di questo genere, già in fase di brevetto, è il “W-Board”, uno skatebord/longboard in cartone, con tavole intercambiabili e “intelligenti”, dotate di sensori (giroscopio, barometro, accelerometro, altimetro, etc.) per rilevare e trasmettere in cloud dati metrici e spaziali da condividere nell’ecosistema W-Lab.
Per 2NYC il 2016 sarà invece l’anno del vero debutto (qui il video trailer). «Usciremo allo scoperto dopo una fase di incubazione nella quale abbiamo lavorato soprattutto con il passaparola – dice Rignanese – Vogliamo diventare un punto di riferimento per chiunque voglia andare dritto al cuore della Grande Mela, qualunque sia il motivo della permanenza a New York, una vacanza o lo sviluppo di un business. Con i nostri tutor, newyorkesi doc che portano i nostri clienti a contatto con la NYC più vera, acceleriamo il processo di conoscenza della città, intesa come persone, dinamiche e luoghi».
Nel 2015 l’offerta di 2NYC si è ampliata oltre i corsi di inglese per soddisfare la richiesta, da parte sia di privati sia di aziende, di altri servizi come la consulenza immobiliare, la comunicazione e il marketing, il networking. Il rischio maggiore corso finora, confessa Rignanese, è stato distrarsi dal core business: «Qui a New York c’è un infinito mondo di possibilità. In alcuni momenti abbiamo dovuto sottrarre tempo ed energie allo sviluppo del progetto iniziale riversandole ad esempio sulle attività immobiliari, che sono spesso parte del nostro servizio e fonte di risorse per noi, ma presentano differenti problemi. Per non rallentare lo sviluppo di 2NYC ora abbiamo deciso di focalizzarci meglio». Il prossimo passo nel 2016 sarà conquistare nuovi clienti non italiani, a partire dal Brasile dove Rignanese è in contatto con un partner interessato a collaborare.
Anche Davide Rossi aveva iniziato a New York la sua avventura americana, ma poi ha deciso di trasferire la sua FitBark a Kansas City, “la Silicon Valley del business della salute e del cibo per animali”, come ha spiegato a StartupItalia! qui. Nel 2015 la startup che produce un collare per cani con una app per monitorare la loro attività fisica e il loro benessere è cresciuta in modo sensibile: ha lanciato nuove app iOS e Android per i consumatori, il Web Dashboard per i professionisti, aperto API e un Data Exploration Tool. Ha iniziato a vendere il collare su Best Buy, Target e Amazon negli USA, Best Buy, Staples e iStore in Canada, e su Amazon in Gran Bretagna, ottenendo recensioni con 4.1 – 4.4 stelle su 5.
«Numerosi ricercatori e scuole di veterinaria in America e Gran Bretagna stanno usando il nostro prodotto per sperimentare nuovi medicinali e trattamenti per cani – racconta Rossi -. Nella nostra banca dati sono rappresentate oltre 160 razze in 55 Paesi e grazie a questo la comunità dei veterinari ha un grande interesse nelle informazioni che abbiamo raccolto: d’accordo con alcune prestigiose scuole pubblicheremo delle analisi sui giornali di veterinaria». L’errore più grave commesso da FitBark nel 2015 ha riguardato il customer service: “Avevamo un sistema via email con la nostra risposta entro 23 ore (la media del settore) – ricorda Rossi -. Gli utenti non avevano pazienza e pubblicavano commenti negativi prima ancora che avessimo risposto. Adesso siamo passati a un sistema di chat dove la prima risposta avviene anel giro di pochi minuti, un modo per rassicurare gli utenti che li stiamo ascoltando e siamo pronti ad aiutarli a risolvere gli inconvenienti”. Il focus nel 2016 sarà far crescere il marchio, in mezzo a una concorrenza accanita, ed espandersi internazionalmente oltre i tre Paesi dove per ora si può comprare il collare (USA, Canada e UK).
A Boston, culla delle Life Sciences, si è stabilito invece Livio Valenti, che insieme allo scienziato Fiorenzo Omenetto della Tufts University ha fondato Vaxess, la startup che promette di salvare migliaia di vite umane migliorando il modo in cui i vaccini sono somministrati nel Terzo mondo. La sua rivoluzionaria tecnologia consiste nell’uso di una proteina della seta, aggiunta ai vaccini esistenti, per mantenerli efficaci anche se non possono essere tenuti al freddo. «Inizialmente ci siamo focalizzati sul problema della stabilizzazione di vaccini, così da renderli resistenti alle alte temperature durante il trasporto in Paesi in via di sviluppo, dove la catena del freddo risulta una della barriere più sostanziali alle campagne di immunizzazione – racconta Valenti -. Un importante traguardo nel 2015 è stato aver raggiunto una formulazione per il vaccino della Polio e Rotavirus stabile per mesi a 45 gradi, un risultato mai visto in questa misura, con fondi federali e in collaborazione con il CDC (Centers for Disease Control, agenzia governativa USA). Ora stiamo avanzando gli studi su Polio e Rotavirus per ottenere l’approvazione di questi prodotti e chiudere un finanziamento con una fondazione che si occupa di salute pubblica e vaccinazioni».
Per il 2016 il programma di Vaxess è espandere le attività in altri campi correlati alla sua missione originaria. “Stiamo sviluppando un nuovo sistema di micro-aghi come sistema di amministrazione di vaccini, senza siringhe e senza refrigerazione – annuncia Valenti -. Abbiamo imparato che è sbagliato cercare di espandere il business su troppi fronti, utilizzando risorse in modo non focalizzato. Dopo un’attenta analisi abbiamo deciso di concentrarci solo sullo sviluppo della tecnologia dei micro-aghi restringendo le potenziali applicazioni da quattro a una”. Quest’anno Vaxess è “molto vicina ad avere un cash flow positivo – dice Valenti – grazie anche a quattro partnership con aziende farmaceutiche leader nel settore dei vaccini e medicinali biologici”.
In California non è più solo la Silicon Valley la meta preferita delle startup italiane – e di tutto il mondo -. Elena Favilli e Francesca Cavallo avevano fondato Timbuktu Magazine (www.timbuktu.me ) a San Francisco, ma – anche a causa degli esorbitanti prezzi immobiliari raggiunti in quella città – l’anno scorso si sono spostate a Los Angeles e ora lavorano a due passi dalle spiagge di Santa Monica. Nel frattempo Timbuktu è cresciuta e ha raggiunto il breakeven, passando da rivista per bambini su iPad a creatore di contenuti multimediali anche per conto terzi, per esempio per l’editore italiano DeAgostini. “Ora siamo felicissime di collaborare al disegno di tre innovativi campi-gioco per bambini delle comunità più svantaggiate della Bay Area, insieme a zynga.org e YMCA (organizzazione mondiale benefica) – dice Favilli -.
È un progetto finanziato dalla Fondazione della NFL (National Football League) e dal 50 Fund (fondo del comitato per il Super Bowling a San Francisco) e sarà realizzato entro il 7 febbraio 2016, quando si giocherà il Super Bowl (la finale del campionato di calcio americano)”. Timbuktu aveva presentato una prima versione di questi campi-gioco nel 2014 alla Biennale di Architettura di Bordeaux, vincendo la First Special Mention. “Da allora – racconta Favilli – abbiamo sviluppato una visione molto più grande, basata sulla convinzione che qualsiasi comunità nel mondo, non importa quanto povera, può coinvolgere i bambini nella pianificazione urbanistica e nella creazione dei loro spazi per giocare. Per questo nel 2016 vogliamo collegare Timbuktu Colors a un open source toolkit utilizzabile da chiunque per il co-design e la costruzione di spazi urbani dedicati al gioco che siano low cost e di alta qualità” (per saperne di più: http://timbuktu.me/blog/timbuktu-superbowl/ ). “L’errore più grande commesso finora – spiega Favilli – è stato pensare che l’App Store potesse essere sufficiente come canale di distribuzione e monetizzazione. Stiamo rimediando, costruendo il nostro canale di distribuzione direttamente sul web. Viva il web!”.
A San Francisco invece è rimasto Augusto Marietti con la sua Mashape. Ci era andato lasciando polemicamente l’Italia con una lettera ai ragazzi come lui, diventata subito virale: “Lasciate l’Italia se l’amate veramente, vincete tutto e poi un giorno forse potrete tornare da grandi e avrete il potere di cambiarla, voi”. In California Marietti ha trovato soci del calibro di Jeff Bezos (il fondatore di Amazon), Eric Schmidt (il presidente di Google) e la Stanford University, facendo diventare Mashape il più grande mercato online per gli sviluppatori di software in cerca di Api (application programming interface): lo usano 205 mila sviluppatori, ci lavorano 25 persone e da un paio di mesi i conti della società sono in attivo. Un errore commesso, ragiona Marietti, è stato aver assunto gente troppo presto. “Ma ho rimediato, licenziando presto”. Ora sta sviluppando un nuovo prodotto, Kong (getkong.org). Il segreto per aver successo? “Determinazione e perseveranza – spiega Marietti -. E poi ci vogliono molto coraggio e la faccia di bronzo: imbucarsi a casa d’altri per conoscere gente e trovare contatti”. Il peggior nemico degli italiani in America? “La timidezza e non saper parlare un inglese migliore di quello scolastico – risponde Marietti -. Così si chiudono fra di loro e non fanno networking, indispensabile per trovare possibili partner e nuovi business”. Restare focalizzati, attenti a trovare i partner giusti e soddisfare i clienti, mai stancarsi di fare networking: sono alcune delle lezioni imparate dalle startup italiane negli USA, utili anche a chi resta nel BelPaese.