La crisi del credito, meglio nota con il termine anglosassone di credit crunch, è la bestia nera con la quale molte aziende medie e grandi si trovano a fare i conti quotidianamente. Il credito è in crisi perché il sistema è in crisi. Una crisi che ha travolto e investe dal 2008 in primo luogo le banche e gli istituti finanziari, ma i cui effetti si riverbereno inevitabilmente sull’anello più largo (e debole) della catena, ovvero i cittadini-utenti-clienti, e poi a seguire le imprese, che è vero che effettuano – soprattutto tra loro – una grande mole di affari, ma che non riescono a scardinare le maglie del credito e, per di più più, come un enorme effetto domino sono intrappolate in una morsa, quella dei tempi di pagamento, che raggiunge tempi biblici: 95,8 giorni è il tempo medio di incassoper le aziende in Italia, quasi il doppio della media europea (53). Stime che schizzano al triplo, 149 giorni, per una Piccola media impresa, mentre negli altri paesi del vecchio continente la media è di 45.
Come si finanziano le imprese, oggi
Attualmente sono tre mezzi di accesso al credito “tradizionali” principali sono tre: la più diffusa è l’Anticipo fattura, una forma di finanziamento tipicamente “bancario”. Il fornitore presenta una fattura emessa a un istituto finanziario, perché ne converta una parte in liquidità. In Italia con l’anticipo fattura sono stati già finanziati 146 miliardi. La seconda è il coseddetto Factoring: il fornitore stipula un contratto con l’istituto finanziario, al fine di farsi anticipare una serie di fatture. L’istituto può assumersi o meno il rischio del mancato pagamento in cambio dell’anticipo di una parte o dell’intero valore nominale del credito. E poi, il Reverse factoring, che come suggerisce la parola stessa, funziona allo stesso modo del factoring, ma a ruoli debitore/creditore sostanzialmente invertiti. Qui il cliente stipula un accordo con una società di factoring, facendo anticipare presso i propri fornitori le fatture approvate (e aumentando anche i propri tempi di pagamento). Una pratica molto utilizzata in Italia per i pagamenti dei fornitori da enti e istituzioni, in primo luogo dalla nostra Pubblica Amministrazione. Tutte soluzioni che comportano alle imprese importanti costi fissi e commissioni. Sempre che passino la valutazione di “bancabilità”.
Si scrive Supply Chain Finance si legge Credito di Filiera
E se provassimo a vedere le imprese non come monadi ma come insieme di un ecosistema, di una filiera (o di tante filiere)? In fondo, lo abbiamo detto, il b2b, anche in Italia, gode di ottima salute, generando un giro d’affari 436 miliardi di euro, secondo i dati dell’Osservatorio Supply Chain Finance del Politecnico di Milano. Supply Chain Finance è, appunto, l’insieme delle soluzioni che consentono a un’impresa di finanziare il proprio capitale circolante, facendo leva non solo sulle sue caratteristiche economiche, finanziarie o di business, ma anche sul ruolo che questa ricopre all’interno della filiera in cui opera.
Il meccanismo alla base del credito di filiera prevede che un’azienda medio-grande “garantisca” per i propri fornitori, facilitando l’accesso al credito (e con condizioni migliori) da parte di banche e società finanziarie. In buona sostanza, l’affidabilità creditizia non è più quella solo dell’azienda-fornitore, ma quella del grande gruppo a capo della filiera. Questo sistema virtuoso va ad impattare (e risolvere, nella maggior parte dei casi) direttamente il punto debole di molti imprenditori, vittime spesso di “rating” negativi a seguito di analisi dei dati finanziari ed economici, che è poi il modello classico di finanziamento del capitale circolante. Infatti, i parametri contenenti le informazioni di valutazione operativa dei fornitori, dalle prestazioni di qualità, alla puntualità, all’affidabilità, al livello di servizio, alla conformità e flessibilità, oggi vengono già oggi raccolte dai clienti in maniera quantitativa e continuativa nel tempo e sono già disponibili in formato digitale nei sistemi interni di vendor rating, ma non sono condivise con il mondo finanziario.
Un tesoro, che però non conosce nessuno
Ancora un po’ di numeri. A marzo 2016, secondo l’Osservatorio Supply Chain Finance del Politecnico di Milano, il valore delle fatture in attesa di essere pagate in italia è pari a 570 miliardi di euro. Se consideriamo che, sempre secondo l’Osservatorio, al momento il credito di filiera ammonta a circa 150 miliardi, è facile dedurre che le potenzialità del settore sono davvero notevoli. Praticamente tre quarti del mercato ad oggi non è ancora servito. Davvero una prateria.
Gli effetti collaterali (positivi) del credito di filiera
Va anche considerato che il credito di filiera va ad impattare direttamente l’efficacia e l’operatività interna della stessa, poiché:
1. riduce il rischio di default di partner strategici;
2. crea relazioni di lungo periodo basate su trasparenza, fiducia e collaborazione;
3. produce una gestione più sostenibile del proprio tessuto sociale ed imprenditoriale.
Non solo. Spesso i fornitori sono guidati dall’impresa capofila verso la digitalizzazione e revisione interna di processi amministrativi a basso valore aggiunto, aumentando l’efficienza dei processi e quindi i costi interni di tutte le aziende che compongono la filiera. Una filiera che non è più una semplice catena di produzione e distribuzione ma diventa di fatto una catena di valore, e di valori.
E’ quello che, ad esempio, fa Gucci che “garantisce” per la propria catena di artigiani fornitori agevolandone l’accesso al credito. Un altro sistema simile lanciato da Renzo Rosso, il papà di Diesel, che affianca la garanzia ai propri fornitori al rispetto di un “rating di qualità” da rispettare. E poi ancora Whirpool, che ha una propria piattaforma digitale dove i propri partner hanno la possibilità di scontare direttamente le fatture, tagliando tempi e costi.
Next step: creare il nuovo mercato (digitale)
In Italia questo sistema, che potremmo definire forse impropriamente di finanza alternativa, è comunque davvero agli inizi. Lo confermano numero di player attualmente coinvolti: la maggioranza degli operatori bancari (quasi 400) offre l’Anticipo fattura, le società di Factoring sono circa 40, mentre sono solo poche unità i provider di soluzioni innovative.
Per sfruttare appieno le potenzialità del mercato, ha spiegato il direttore scientifico dell’Osservatorio, Alessandro Perego, «ci sono principalmente tre strade: estendere la digitalizzazione dei processi a tutte le soluzioni, per renderle più competitive e facilmente accessibili». Tutto preceduto da un cambio di mentalità, o meglio di paradigma: «l’ottica di filiera – dice Perego – deve sostituire quella di singola azienda in ogni ambito. Infine, tutti gli attori, imprese industriali e commerciali, istituti finanziari e nuovi operatori del credito, It service provider e associazione di categoria devono fare sistema».
L’importanza delle piattaforme
E quando parliamo di digitalizzazione, nel caso delle imprese non è solo una questione di banda larga, identità digitale e fattura elettronica. Servono piattaforme che facilitino l’accesso a questi nuovi strumenti, com’è stato ad esempio, negli ultimi 5 anni, per il crowdfunding e per il p2p lending. Ecco, come allora, in un settore ancora poco esplorato dalle banche, ci sono i “pionieri”: le startup. E, visto che si parla del futuro dei soldi, di startup fintech, che abbinando algoritmi a sistemi tradizionali di analisi creano nuove piattaforme online che consentono di caricare le fatture e cederle a operatori terzi. L’esito delle operazioni (e l’ottenimento o meno del finanziamento) è veloce, molto più veloce delle banche. Una startup promette di accreditare il finanziamento sul conto dell’impresa richiedente addirittura entro 48 ore.
Credimi, la startup che “compra” le fatture non pagate
E’ italiana, si chiama Credimi (nata come Instapartners) e ha il proprio quartier generale negli spazi di Copernico, a Milano. L’età media dei soci è trent’anni. A sceglierli, tra ingegneri ed economisti, sviluppatori e manager, designers e broker, un Ceo che non è un founder sbarbatello, ma un ex ex consulente di Boston Consulting Group: Ignazio Rocco di Torrepadula. Lo abbiamo intervistato.
«Possiamo darci del tu?» Il Ceo di Credimi propone subito di abbandonare ogni formalità, e noi accettiamo volentieri di “trattarlo” come ogni founder, nonostante quello che potremmo definire un “alto profilo” e una startup che prima ancora di arrivare sulla rampa di lancio aveva già chiuso un round da 8 milioni di euro.
Ignazio, la prima domanda forse banale è più che altro una considerazione a voce alta: sei passato dalla finanza analogica (e con numeri a più di sei zeri) a quella digitale. Perché?
«Quello che sto facendo e anche quello che ho fatto per 20 anni come consulente di banche. Mi è sempre interessata moltissimo l’innovazione, specie quella dei sistemi informativi, e della tecnologia. Poi, lavorando con i clienti banche puoi raccomandare delle cose, ma non puoi farle. Dipende che il cliente voglia farlo o no…»
Cos’è che non ti era possibile fare con il tuo vecchio lavoro?
«Negli ultimi tempi le banche hanno trovato motivi per cui le cose non si possono fare. Per cui quando a 50 anni ti dicono “questo no”, che “gli italiani non sono pronti”, che “la Banca d’Italia lo impedisce” allora le strade sono due: o ci credi, e continui a fare quello che fai, oppure se pensi che non sia vero dici “ora ci provo io”. E quando ho iniziato a vedere che queste cose all’estero si sviluppavano (ho sempre fatto l’angel investor delle startup di altri) mi sono detto “posso farne una io”».
Mollare tutto per fare lo startupper, a 50 anni
Sai bene, visto che conosci l’ambiente, che la logica di una startup è scalare velocemente un mercato, oppure crearlo, e poi vendere. Tu hai davvero mollato tutto, a 50 anni, per fare lo stesso?
«Credimi è una startup, oggi, ma domani sarà una grande azienda e io a questo progetto dedicherò i prossimi 10 anni almeno, non solo un paio. Un mio socio in Bcg diceva sempre 2 cose, primo “bisogna fare le cose semplici”. Seconda cosa diceva sempre “per fare un’azienda ci vogliono 10 anni”. Per entrare in un nuovo mercato “ci vogliono 10 anni”, per stabilizzare un prodotto “ci vogliono 10 anni”. Per entrare in Cina “ci vogliono 10 anni”. Non sapremo prima di un decennio se ci abbiamo visto giusto. Certo, son contentissimo se tra un paio d’anni viene un grande gruppo e mi offre un sacco di soldi ma non è questa la nostra prospettiva. Abbiamo l’ambizione di creare un’azienda che possa diventare grande, innanzitutto in Italia, poi se va bene andare anche fuori».
Ma i numeri del Supply Chain Finance in Italia sono ancora risicati…
«Meglio. Sono sempre stato convinto che il business del credito di filiera in Italia sia un’enorme opportunità. Spero che lo faremo noi, ma anche se non lo faremo noi lo farà qualcun altro. In realtà Credimi è fatta di 14 persone al momento, che sono importanti, molto più importanti di me. L’ho fondata io ma intorno a me ci sono persone migliori di me. La cosa molto importante è che gli altri hanno più o meno di 30 anni, e quindi loro sì che possono ragionare in un’orizzonte di 10 anni. E questi ragazzi non si chiedono osa dobbiamo fare perché qualcuno venga a comprarci. Noi ci chiediamo cosa dobbiamo fare per dare una soluzione a quel imprenditore, per cambiare la vita di quella piccola impresa».
Come funziona Credimi
Ci spieghi cos’è Credimi?
«Non siamo un marketplace e non siamo neanche un p2p lender. Siamo un digital lender, nel senso che abbiamo un’interfaccia completamente digitale per i debitori. Ci presentano una fattura, noi la analizziamo e noi finanziamo col nostro bilancio. Il nostro algoritmo utilizza una serie di base dati di tipo creditizio generale, visure camerali, centrale rischi, e calcola una probabilità di perdita in base a tutti questi fattori».
In quanto tempo?
«Il risultato che genera la macchina è pressoché immediato, il risultato generale è 3-4 ore, poiché è sottoposto a un processo di revisione. La macchina prepara un’intera analisi di credito. Noi rivediamo la coerenza, alcuni elementi, e poi ovviamente integra qua e là, telefona al cliente, solo alla fine di questo processo il sistema “emette” una sua decisione in merito all’esito del finanziamento. Siamo molto fieri del fatto che usiamo approcci tradizionali. Automatizzati ma tradizionali. E poi, non si possono prendere decisioni su modelli nuovi prima di averli testati, e per noi tutti i modelli che testiamo sono R&D. Soltanto dopo averli testati li implementiamo sulla piattaforma».
Il ruolo degli investitori
Quindi, io carico le mie fatture sulla vostra piattaforma. Ma a voi, i soldi che poi mi finanzierete, chi li dà?
«Inizieremo con quattro partner, che noi chiamiamo lending partner, sono tutti fondi istituzionali, coprono tutti i nostri obiettivi di finanziamento per il primo anno. I nostri “prestatori” sono i gestori di risparmio delle famiglie. Noi sostanzialmente facciamo arrivare alle Pmi i risparmi delle famiglie. Alcuni sono fondi aperti, altri sono fondi chiusi. Tecnicamente, comprano i nostri portafogli, e anche noi compriamo quote di quei portafogli. Il 5% dei portafogli che vendiamo lo compriamo noi, col nostro capitale in bilancio»
E questi fondi di investimento controllano anche la startup?
«Credimi SpA è controllata come quota di maggioranza assoluta dal suo management. I nostri dipendenti hanno tutti equity, non è che io ho il 90% (sorride, ndr). I nostri ragazzi sono come gli azionisti di una banca. Per loro è importante questo approccio perché questo si vede nella vita di tutti i giorni: si sentono davvero partecipi del rischio, non come i dipendenti di una banca perché loro sanno che è la loro azienda, il loro capitale».
Età media 30 anni, il team
Che tipo di profili lavorativi ci sono dentro Credimi?
«Uno di loro è stato per 3 anni in Goldman Sachs, un altro per 2 anni in Google. Poi ci sono 2 sviluppatori tra cui una delle poche donne ingegnere che è stata in Google, poi la responsabile partnership (che aiuta me) che è stata in General Electric e McKinsey, poi Gianmarco Molinari, che ha la mia età, è stato senior leader del marketing di Unilever. Il Cfo viene da IW Bank e il product designer, Gershom Charig, ha fatto un bellissimo lavoro a MoneyFarm».
Un team quasi tutto italiano…
«Sono tutti italiani, compresi anche gli sviluppatori sono molto bravi. Io ho avuto a che fare anche con gli ambienti di San Francisco, ebbene, non è affatto vero che lì si trovino competenze superiori. Cosa che per me non è una novità, l’ho sempre detto ai miei clienti quando lavoravo per loro: i bancari italiani sono assolutamente come quelli degli altri paesi, forse anche meglio. Vale lo stesso principio nel fintech: non avevo timore di non trovare i soldi per fare la startup. Quello che mi domandavo sempre quando ho iniziato a mettere in piedi il team era “riuscirò veramente a trovare le persone giuste”?»
Ok, ma fare startup in l’Italia non è proprio uguale uguale a farlo in Silicon Valley. E’ solo un problema di soldi?
«Penso che dobbiamo fare dei passi in avanti. La liquidità e i risparmi in italia esistono per definizione. Semmai finiscono per essere investiti in altri paesi…»
Milano, capitale del fintech
E quindi, cosa manca rispetto a Usa e, visto che parliamo di fintech, Uk?
«Fare massa critica e concentrarsi un po’. Nel fintech a mio avviso a Milano bisognerebbe unire le forze, creare un grosso polo del fintech. Non abbiamo niente da invidiare a Londra, tocca mettere a disposizione non tanto soldi, che non mancano, ma tutta una serie di strutture di supporto e squadre dedicate da parte dei regolatori».
Sbaglio o tra le righe stai proponendo di istituire una sandbox a Milano?
«Magari, perché no. Se noi creiamo, faccio un esempio, a Milano, un hub per sperimentare le Api bancarie, con norme speciali per cui in Italia è più facile farlo che altrove… ti assicuro che questo avrebbe un impatto enorme. L’italia ha una competenza finanziaria enorme, è tra i mercati del risparmio pi grandi del mondo. Abbiamo circa 300 mila bancari e competenze enormi. Parlo per esperienza, tradizionalmente l’Italia è molto forte nei business finanziari, non ha nulla da invidiare a Germania e Francia».
Aldo V. Pecora
@aldopecora