Come gli incubatori di startup italiani, dal fallimento della situazione attuale, potrebbero trasformarsi in una buona leva per risollevare l’imprenditoria innovativa italiana
Il seguente articolo vuole stuzzicare e sollecitare gli attori dell’innovazione e i membri degli incubatori d’impresa affinché riflettano su ciò che c’è di sbagliato nell’attuale panorama italiano delle startup. Inoltre, propone delle soluzioni su ciò che può essere fatto perché l’Italia torni a risplendere.
Breve Intro: il panorama italiano delle startup
Di recente, ho letto un articolo sulla situazione degli incubatori di startup in Italia, che mi ha mi fatto molto riflettere sulle opportunità, in tema di innovazione, che il nostro Paese sta perdendo e non è in grado di cogliere.
La maggior parte degli incubatori italiani, nel tempo, non si è mostrata in grado di ricercare e produrre Business Model capaci di generare reale profitto e valore.
L’Italia è stato il primo Paese al mondo (e pare esser l’unico), nel 2012, ad aver creato delle leggi per regolamentare incubatori e “startup innovative” (risale al 21 Febbraio 2013 il “decreto incubatori” oggi in vigore).
Il decreto era stato pensato per dar vita ad un’unica lista di “società innovative” di qualità: un nuovo “strumento” per gestire l’innovazione e gli investimenti pubblici attorno ai progetti innovativi nella loro prima fase di sviluppo in un settore specifico, e per aiutare le startup in un Paese che non ha mai investito grandi somme per la ricerca e lo sviluppo.
…ci sono prove statistiche che dimostrano come l’Italia sia in forte ritardo rispetto agli altri Stati europei per ciò che riguarda lo sviluppo di business e la raccolta di capitali
La pietra miliare del 2012 ha solo contribuito a generare una gigantesca “bolla”, proprio intorno all’universo delle startup.
Da quel momento non è stato più raggiunto alcun risultato apprezzabile, se non un aumento della confusione all’interno della comunità di innovatori, che ha contribuito ad incentivare:
- la fuga di menti talentuose dall’Italia;
- l’investimento di denaro, da parte degli investitori italiani, su mercati internazionali che offrono minori rischi e maggiori rendimenti, anche grazie ad un ecosistema ricco di opportunità (in ottica di diversificazione del portafogli);
- una diversa definizione di “startup” a livello internazionale rispetto alla definizione del legislatore italiano (startup innovativa);
- la creazione di un modello di startup legata ad una moda momentanea “Tutti sono startupper, basta essere nella lista” — una lista fatta per lo più di progetti di scarsa qualità —;
- il riciclo di professionisti presi da altri settori come mentor per le startup che dispensano consigli di poco peso sia gratuitamente che a pagamento (con parcelle molto elevate e fuori da ogni logica);
- la richiesta di veri e propri Business Plan per valutare i progetti di innovazione non ancora testati, a causa della mancanza di conoscenze e competenze nel mercato;
- l’investimento da parte dei team di ingenti quantitativi di fondi, anche raccolti da ignari ed avventizi investitori, per lo sviluppo di piattaforme che nessuno comprerà.
Se analizziamo l’attuale momento e lo compariamo alla storia del fenomeno startup americano, possiamo collocare l’Italia indietro di 20 anni. Gli States infatti, hanno vissuto la stessa situazione oggi presente in Italia, durante la “bolla” del dot-com, quando qualsiasi studio legale e/o contabile, diveniva un incubatore per startup, fallendo miseramente.
Il dilemma dell’incubatore d’impresa italiano: perché ci ritroviamo ancora impantanati?
Il confronto fra l’odierno modello di incubatori italiani ed il modello dell’epoca “bolla dot-com” 1995-2000 mette in luce le seguenti assonanze:
- incubatori (sia certificati che non) poco profittevoli, hanno aperto sedi in ogni dove (per essere definiti tali, ed essere quindi inseriti nella lista stilata dal governo, devono possedere alcuni requisiti minimali previsti per legge, tra cui uno spazio di almeno 500 mq);
- solo alcuni hanno un modello di business capace di generare profitto;
- il management team spesso dimostra di avere una certa confusione circa la differenza tra un’azienda e startup (lasciando a se stesso l’italico pleonasmo “startup-innovativa”);
- solo in pochi si preoccupano di creare una rete di contatti locali, nazionali ed internazionali e di coltivare l’ecosistema che attornia lo spazio fisico;
- sono altrettanto pochi i mentor e le persone negli incubatori con le giuste skills per guidare i team nel c.d. “startup journey” – mancanza di formazione —;
- il metro di valutazione degli incubatori è basato sul denaro raccolto tramite i round di finanziamento.
L’unico modo per poter andare avanti, oggi, per i nostri incubatori è solo attraverso nuovi finanziamenti pubblici o raccolte di capitali dai famosi “FFF” che permetteranno loro di dare un’accelerata nella corsa verso lo scontro contro un muro di cinta.
In una startup si deve dare massima priorità alla validazione del modello di business. È per questo che un buon incubatore deve offrire le risorse necessarie a questa fase di identificazione prima del reperimento di risorse “finanziarie”.
Il mercato internazionale: il passaggio da incubatore a modello ibrido
Il fenomeno degli incubatori nasce negli States alla fine degli anni ’50. Il modello tradizionale associa gli incubatori a delle scatole che ricevono compensi dalle aziende in cambio di:
- spazi d’ufficio;
- servizi di supporto amministrativo;
- introduzione a una lista di possibili finanziatori;
- collegamenti con consulenti legali, contabili e per il trasferimento delle conoscenze tecnologiche.
Se l’incubatore è associato ad un’ università, spesso offrono anche:
- un supporto alla creazione/gestione della proprietà intellettuale;
- un trasferimento di conoscenze dai membri della facoltà alle aziende che commercializzano la proprietà intellettuale dell’università.
Molti incubatori sono non profit, creati da un’università per immettere sul mercato nuove tecnologie, altri nascono per volere di un Comune con l’obiettivo di favorire lo sviluppo dell’economia locale. Alcuni stanno ancora cercando di realizzare un business redditizio dai progetti che hanno incubato, ma è una vera sfida fare soldi quando i tuoi clienti non hanno abbastanza risorse da investire.
Dal momento in cui gli incubatori sono stati definiti realtà non redditizie e che gli acceleratori profittevoli come techstars, Ycombinator, Startupbootcamp solo per citarne alcuni, aperti solo a team ben amalgamati e con uno stadio di sviluppo del progetto avanzato, è stato coniato un nuovo termine (una parola per noi dal doppio senso) “INCULATOR” che descrive il “nuovo” modello ibrido esposto da Susan Cohen nel 2013.
Cos’è cambiato con l’adozione del modello ibrido?
Il nuovo approccio ibrido, invece, vuole rendere più dinamico e profittevole il mondo degli incubatori, portando gli stessi a fornire un servizio di consulenza e assistenza personalizzato ai loro clienti (startup) che parte dal concetto fondamentale di “cosa è realmente una startup”.
— Steve Blank: “Una startup è una forma di organizzazione temporanea in cerca di un modello di business che sia scalabile, ripetibile e in grado di generare profitti”;
— Dave McClure: “una startup è un’azienda che ancora non sa bene 1) qual è il suo prodotto, 2) chi sono i suoi clienti, e 3) come può fare soldi. Non appena riesce a capire queste tre cose, cessa di essere una startup per trasformarsi in un vero business. Tranne che nella maggior parte ciò non accade”;
—…”un gruppo di persone che momentaneamente lavora per realizzare un prodotto innovativo che i clienti ameranno, con un grande modello redditizio di business”;
Data la definizione, l’obiettivo dei nuovi modelli di incubatore è quello di generare le migliori condizioni possibili affinché ci siano connessioni fra i team ed il territorio di sviluppo (le comunità locali, fatte di svariati stakeholder tra cui imprese, università, centri di ricerca, investitori, pubblica amministrazione …) così da condurre le startup e l’ecosistema a uno stadio successivo di sviluppo.
Cosa dovrebbero fare gli incubatori d’impresa italiani per avere successo e cambiare il proprio destino?
La mia proposta di approccio al mercato da parte degli incubatori di startup italiani, al fine di avviare un percorso nuovo e capace di generare profitto, parte attraverso lo sviluppo di:
- una nuova visione per divenire facilitatore del business e sostenitore della cultura dell’innovazione;
- la comprensione delle reali necessità di supporto dei gruppi eterogenei selezionati nei percorsi di incubazione, al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati nel percorso;
- cognizione dell’impossibilità di poter controllare l’innovazione, ma di poterla gestire;
- rispetto per la regola secondo la quale le risposte non si trovano “all’interno dei palazzi” (la startup ha bisogno di validare le ipotesi nel mercato di riferimento);
- il riconoscimento dell’impossibilità di far scrivere un Business Plan ad una startup, essendo la stessa alla ricerca del giusto match Problema-Soluzione e Prodotto-Mercato, per via delle troppe ipotesi da dover ancora validare, che rendendo qual si voglia BP un inutile spreco di tempo;
- la coscienza di dover mantenere limpida (poco pasticciata) la struttura societaria delle startup, trovando le migliori vie di fuga al fine di evitare troppi interventi in cap-table e riducendo al minimo “l’estorsione” di grandi quote di equity (alcuni player professionali italiani arrivano a chiedere fino al 30-35%) e la sottomissione di patti para sociali paurosi, così da evitare morie inutili;
- una community di fondatori, all’interno dell’incubatore, attraverso cui i membri dei team possano aiutarsi l’uno con l’altro – è un’attività difficile che richiede tempo ma che alla fine paga, senza preoccuparsi per la “sindacalizzazione” o le lamentele che si potrebbero creare se l’incubatore funziona;
- un network di mentor che faciliti il processo di validazione delle ipotesi e che riduca al minimo la distanza tra startup e mercato.
L’approccio degli incubatori dovrà essere gestito da un insieme di regole interne al team, che siano capaci di:
- gestire la scelta del mentor evitando che ci sia mancanza di focus nelle mentorship e che gli stessi forniscano consigli e diano verdetti, non ascoltando;
- promuovere un processo di mentorship capace di stabilire come assistere le startup, migliorando le loro competenze e connessioni personali;
- sostenere la relazione tra startup e mentor evitando rapporti superficiali o di breve durata;
- gestire un sistema di KPI idoneo al mercato;
- creare un circuito di feedback (gli incubatori dovrebbero mantenere in vita le relazioni di mentorship);
- costruire un’autorità centrale che garantisca il rispetto e ne faciliti i rapporti delle singole figure aziendali come i fondatori, i mentor, i partner, etc…
Tutto il processo di innovazione e nuova gestione dovrà infine sfociare nella costruzione, gestione e supporto della comunità locale affinché il network di portatori di interesse cresca si formi e venga attratto dal nuovo modello, attraverso eventi, corsi di formazione, aperitivi…permettendo alla comunità di crescere ed occupare un ruolo chiave nel futuro della startup (test, investimenti, mentorship, sviluppo delle opportunità, scouting delle startup …).
Il modello di reddito dell’incubatore d’azienda
Gli incubatori possono costruire il proprio modello di ricavi su 4 pilastri portanti.
1) INCUBAZIONE
- Equity Fee — è la quota di equity (può essere tra il 5-10%) contrattata dalle startup che entrano a far parte del portafogli dell’incubatore;
- Service Fee — sono il prezzo per i servizi offerti alle startup, incluse attività di carattere commerciale, marketing/PR o supporto allo sviluppo dei test di mercato, ingegneria di supporto in fase di prototipazione, servizi di segreteria aziendale o CFO part-time…(tali servizi sono da costruire in base al verticale dell’incubatore / “Customer Persona”);
- Program Fee — (finanziamento) sono i costi d’incubazione che vengono addebitati alla startup nel momento in cui potrà pagare (ex post round di finanziamento);
- Sponsorship — molti incubatori sono supportati da sponsor globali interessati a tenere un piede nel mondo dell’innovazione locale (spesso si sopperisce al program fee tramite questa linea di ricavi).
2) FINANZIAMENTO
- Servizio di Raccolta – fee alla chiusura del fundraising;
- Club Deal – ad esempio, i partner potrebbero pagare una quota di servizio per ogni investimento portato a termine o per il servizio di scouting.
3) CORPORATE INNOVATION – gli incubatori potrebbero supportare i programmi di Corporate Innovation tramite il supporto al:
- processo creativo delle idee;
- scouting e la valutazione/filtraggio delle startup;
- definizione dei processi innovativo;
- programmi di diffusione, gestione e costruzione di portafogli di innovazione.
4) ECOSYSTEM BUILDING — alla base del processo di incubazione, delle raccolte fondi (siano esse club deal o single deal) e di tutti i servizi proponibili da parte dell’incubatore, c’è l’estrema necessità della costruzione dell’ecosistema.
Le attività di costruzione sono dispendiose ma rendono il processo di incubazione molto produttivo ed interattivo per gli startupper:
- Attività di formazione: gratuiti ed a pagamento;
- Eventi sponsorizzati: anche in connessione con le attività di Open Innovation;
- Supporto finanziario da parte del governo centrale e locale al fine di far crescere il network e le opportunità attorno al mondo delle startup.
Conclusioni
Gli incubatori italiani devono immediatamente modificare la propria visione d’insieme, aggiornando i vecchi e contorti modelli di gestione e ripartendo dallo studio di quelle che sono le best practice più vicine come Station F, ad esempio, ed avviare proficue collaborazioni con gruppi internazionali, così da poter essere in grado di offrire e gestire l’incubazione dei migliori team di startupper italiani, nel modo più proficuo e consono!
Ricordando nuovamente che le startup non sono aziende, ma gruppi temporanei di persone che insieme testano e validano ipotesi al fine di ricercare un modello di business profittevole e sostenibile, gli incubatori dovrebbero evitare di utilizzare metriche finanziarie ROI, RONA, ROE come metro di misurazione del successo; tali metriche, utilissime per le aziende, spingono gli startupper e gli incubatori a raccogliere fondi per spingere il team a scalare un business senza le basi giuste… tale approccio porta, come già visto molte volte, gli investitori a cadere nel girone dei “Fools”, mentre gli startupper aumenteranno notevolmente le opportunità di fallimento.
I principali parametri di riferimento che gli incubatori dovrebbero utilizzare per misurare il proprio successo sono i numero di:
- Value Proposition validate (P/S Fit);
- riferimenti di clienti ed accordi sviluppati da ogni startup;
- prodotti sostenibili sviluppati;
- numero di scaleup con un BM validato;
- persone di alto valore all’interno del network (visitatori abituali)
- eventi e qualità degli stessi per educazione l’ecosistema ed aiutare la cultura del mondo startup a crescere.
Ovviamente, se il management team ha sviluppato nel giusto modo il proprio network di investitori e la raccolta di capitali è pertinente ed appropriato con lo stadio e le necessità del progetto, l’incubatore sarà sicuramente in grado di mettere in contatto le startup con i gruppi di angel e venture capitalist (un servizio importante, ma non necessario).
Per concludere, lascio i seguenti spunti di riflessione ai dirigenti e al personale degli incubatori:
- è necessario tenere separati business e finanza, dal momento che non sono un ponte per il capitale, ma un tramite per il successo delle startup e dell’ecosistema;
- ricordare sempre che quel che si insegna agli startupper, deve esser applicato anche al proprio business, infatti i top player di mercato mantengono un approccio da “startupper”, ovvero sono sempre alla ricerca del nuovo modello di equilibrio fra servizi e mercato/ecosistema
- coltivare vivamente l’ecosistema attorno al proprio incubatore ingaggiando e richiedendo ai vari stakeholder di supportare i programmi di innovazione; creare un’ecosistema è la più folle, stressante e dispendiosa attività per un incubatore, che va portata avanti per aiutare sé stessi (incubatore), i propri clienti (startupper) ed il futuro dell’Italia. Questo percorso sarà d’aiuto per tutto lo sviluppo del mercato, dalla reputazione del marchio, della capacità di raccolta di sponsorizzazioni, fino al miglioramento dei flussi di opportunità e di raccolta fondi.
Per concludere vorrei fare riferimento ad una battuta venuta fuori dalla discussione del mio articolo originale pubblicato in Medium: “dovremmo iniziare ad assumere che non c’è un modo italiano per fare meglio startup/innovazione, l’unico modo per uscire fuori dal baratro è iniziare ad utilizzare le best practice esistenti. Ogni pezzo del nostro ecosistema dovrebbe seguire questo esempio”.