Ray Kroc, il fondatore dell’impero McDonald’s, è solo un bambino quando scopre quale sarà il suo futuro. Nella sua autobiografia racconta di quando suo padre lo porta da un frenologo, lo studioso di una disciplina pseudo scientifica che promette di predire l’avvenire di una persona dalla conformazione del cranio. La “testa” del piccolo Ray parla chiaro: avrebbe fatto carriera nel business della ristorazione.
Quello che neanche il frenologo può prevedere è che non sarebbe stato un imprenditore qualsiasi. In 22 anni porta la catena di ristorazione al primo miliardo di utili. Nel 1965 il brand esordisce in Borsa. Nel 1983, l’anno prima della sua morte, le vendite toccano quota nove miliardi.
E quello che più sorprende nella sua vita che questi numeri li ha raggiunti senza aver inventato nulla. Il marchio McDonald’s non appartiene a lui. Lo ha comprato – per alcuni con manovre poco pulite – da due fratelli, Richard e Maurice McDonald, i fondatori del primo ristorante della catena e di un nuovo metodo di lavoro che è alla base del successo futuro. Ma, mentre loro sono stati spazzati via dalla storia, lui è rimasto “l’unico fondatore” a prendersi tutti gli onori. Troppo furbo e scaltro lui, o ingenui gli altri?
Come nasce un venditore perfetto
«Ho sempre creduto che ogni uomo crea la sua felicità ed è responsabile dei problemi che affronta. È una filosofia semplice», scrive nelle prime righe della sua biografia Grinding it Out: The Making of McDonald’s. Ray nasce a Chicago, figlio di una famiglia di immigrati cechi. Suo padre lavora in Western Union e la madre una musicista che gli trasmette la passione per il pianoforte. Non è fatto per studiare, a differenza del fratello Bob che fa carriera come professore universitario.
Legge poco, ma ha l’abitudine di sognare a occhi aperti tanto che a scuola gli affibbiano il soprannome di “Danny Dreamer”: «Immaginavo ogni tipo di situazione e come avrei saputo gestirle. Non ho mai considerato i miei sogni come una perdita di energia: erano tutti legati a un’azione. Per esempio, quando ho sognato di avere uno stand per vendere limonate, dopo qualche giorno ne ho aperto uno per davvero», scrive.
Inizia a lavorare giovanissimo nella drogheria di suo zio. La sua prima vera esperienza è quella di venditore presso Lily-Tulip Cup Co: vende bicchieri di carta per 35 dollari a settimana, mentre suona il piano part-time per arrotondare. Mostra subito la sua capacità e scala presto la gerarchia diventando uno dei “top seller” dell’azienda. Ma vuole molto di più e va a caccia di nuove opportunità. Allora non sa ancora che il suo destino sta per compiersi quando si presenta nell’insolita veste di un frullatore a cinque lame. Nel 1938 abbandona il lavoro per venderli in proprio e si prende un bel rischio: sposatosi giovanissimo, ha già una moglie e una figlia da mantenere.
L’incontro con i fratelli McDonald
Ed è proprio un frullatore a legare i destini di Ray e dei fratelli McDonald. Richard e Maurice sono due immigrati scozzesi che hanno deciso di fare molto di più nella loro vita rispetto a quella del padre, operaio in una fabbrica di scarpe. Dal New Hampshire si trasferiscono in California intorno agli anni 1930, mentre nel 1940 aprono il loro primo ristorante a San Bernardino.
I clienti di Ray gli parlano di questo ristorante: «Tutti mi chiedevano dei frullatori come quelli dei fratelli McDonald. Ero sempre più curioso di capire chi erano questi fratelli e perché i clienti mi parlavano tanto dei loro frullatori, in fondo avevo macchine simile in molti posti», scrive Ray.
La curiosità lo spinge a volare verso Los Angeles e poi dall’aeroporto a spostarsi verso San Bernardino dove conosce una realtà che colpisce la sua immaginazione: un piccolo ristorante che funziona come un fabbrica perfetta, self service, nessun posto a sedere, menu limitato a cheeseburger, patatine, bibite gassate e frullati. Piatti, e posate di plastica, per risparmiare sul lavaggio. Tempi di attesa per i clienti di pochi minuti, massima pulizia. Un piccolo gioiello che in poco tempo fattura 350mila dollari l’anno, abbastanza per garantire ai due fratelli un buon tenore di vita.
Ray torna a sognare ad occhi aperti come da bambino. Parla con le persone che aspettano in fila, fa domande per capire perché quel ristorante ha così tanto successo e soprattutto calcola la montagna di soldi che quel modello può garantire se esportato nel resto degli Stati Uniti. Entra e si presenta ai proprietari. Stretta di mano, pacche sulle spalle, è bravo con la gente e ci sa fare, strappa la promessa di una cena per parlare di affari. Dopo la serata visita la cucina per capire i meccanismi, prende appunti e torna in albergo: «Quella notte nel motel ho iniziato a immaginare ristoranti McDonald’s in tutti i Paesi, con tanti frullatori all’interno e soldi che finivano nelle mie tasche».
La mattina dopo torna dai fratelli e fa la sua proposta: «Ho visitato le cucine di tanti ristoranti per vendere frullatori, e non ho visto un potenziale come il vostro. Perché non aprite una serie di locali come questo? », chiede Ray. Eppure, malgrado il suo entusiasmo, i due fratelli inizialmente giocano indifesa. Gli spiegano di avere già una bellissima casa e di amarla, di non avere problemi, di possedere un buon tenore di vita. In realtà non hanno alcuna voglia di imbarcarsi in un’avventura che avrebbe significato nuovi problemi, come il fisco, e lavoro. «Ci saranno una marea di casini, chi potrebbe aprirli per noi?” chiede uno dei due fratelli». «Che ne dite del sottoscritto? », replica Ray.
Tutto merito di Harry Sonneborn, mago della finanza
Ray apre il suo primo McDonald’s nel 1955 (mese di aprile) nel sobborgo di Chicago di De Plaines. La formula è semplice: per ogni franchise venduto, lui ottiene una fee dell’1,9% sul fatturato lordo, di cui l’0,5 sarebbe finito nelle mani dei fratelli. Ma, a differenza di quanto immaginava, la realtà è ben più dura. In un anno riesce a vendere 18 franchise. Eppure può a malapena a rientrare nelle spese. Nella sua fretta di acquistare il metodo di lavoro McDonald’s ha strappato una condizione poco favorevole che non gli avrebbe fatto fare soldi. È allora che entra in scena nella storia Harry Sonneborn, un genio della finanza che gli svela un nuovo modo guadagnare con il franchising. Secondo Harry non bisogna vendere “hamburger” ma proprietà. Il piano è questo: creare una compagnia che avrebbe comprato e poi prestato “il terreno” dove sarebbero stati costruiti i ristoranti della compagnia. I franchisee avrebbero pagato a Ray un affitto mensile. Questo sì che garantisce un profitto e non è un caso se con l’entrata in scena di Harry, apre 1000 ristoranti da una costa all’altra del Paese.
Questo sodalizio sarebbe poi finito male. Dopo essere stato nominato presidente dell’azienda, Sonneborn si scontra spesso con Ray. Convinto che il “fondatore” avrebbe portato McDonald’s in acque agitate decide di lasciare l’azienda e vendere le sue azioni per tre milioni di dollari. Il genio della finanza fa un errore grossolano: quei titoli sarebbero cresciuti di tre volte in poco meno di 10 anni.
Ciò malgrado, il ruolo avuto in azienda è stato decisivo. Come è spiegato nel libro McDonald’s: Behind The Arches: «Quello che ha reso McDonald’s una macchina da soldi non ha nulla a che fare con Ray Kroc, con i fratelli McDonald o con la popolarità di hamburger e patatine fritte o frullati. È Sonnenborn il vero artefice».
Quando chiama i fratelli McDonald, «figli di p…»
Il cambiamento della formula di vendita fa arrabbiare i fratelli che vogliono avere un controllo su tutta l’azienda. Ray è stufo di dover dar conto a loro per tutto. Per lui sono diventati solo un ostacolo, “erano ottusi e non capivano che avevo messo ogni mio centesimo nel progetto”.
Su consiglio di Sonnenborn, Ray prepara la sua strategia di acquisto: avrebbe comprato il marchio per liberarsi definitivamente dai fratelli. E per farlo punta su una delle loro più grandi paure: le tasse. Sempre nel libro McDonald’s: Behind The Arches”, l’autore spiega come i due fossero paranoici delle tasse ed è per questo che hanno poi venduto. La cifra chiesta dai fratelli è di 2,7 milioni in cash. Un ammontare che Ray trova ingiustificato. Prova a offrire meno soldi, ma i due non accettano un centesimo in meno. L’affare ha due nodi complessi: il primo è quello del ristorante di San Bernardino, il primo della catena. Ray lo vuole a tutti i costi ed è convinto che è inserito nella trattativa (ma non è così). E poi c’è un giallo enorme, quello della fee dello 0,5% sul fatturato lordo che Ray avrebbe promesso come naturale proseguimento del loro rapporto di collaborazione, senza inserirla nel contratto per questioni fiscali.
Qui le versioni divergono i fratelli ricordano bene quella stretta di mano e la promessa del pagamento, mentre Ray nella sua autobiografia non ne parla in modo diffuso. Secondo la sua versione, non rispetta la promessa perché i fratelli non hanno a loro volta mantenuto la loro, quella cioè di offrigli anche il ristorante di San Bernandino che nel 1961, l’anno dell’affare fattura una cifra come 100mila dollari l’anno. Ma quello 0,5% gli avrebbe conferito molto di più, anche vista la straordinaria crescita della compagnia, «Se avessero giocato le loro carte nel modo corretto quella percentuale li avrebbe resi incredibilmente ricchi», scrive Ray nell’autobiografia.
Ma a lui non basta aver preso il brand, vuole tutto. Avendo ricevuto il diritto del marchio sa che i fratelli sono costretti a cambiare il nome del fast food di San Bernandino che viene ribattezzato in Big M, «Non sono un tipo vendicativo, ma questa volta gliela farò pagare a quei figli di p…», confida ai suoi dipendenti. In che modo? Ray apre un McDonald accanto a Big M per costringerli poi a chiudere. E ci riesce. I due fratelli vengono spazzati così fuori dalla storia e non compariranno mai in quella ufficiale del brand. Pare che proprio per il dispiacere uno dei sia caduto vittima di un attacco cardiaco, mentre per l’altro la vita va decisamente meglio, passerà a miglior vita da milionario e con un casa che è un museo dove raccoglie articoli di giornali, foto e gadget di quello che un tempo è stato il suo McDonald’s.
Fenomenologia di un impero
Dopo la scalata, Ray ha finalmente le mani libere. Nel 1965 ha già aperto più di 700 ristoranti in 44 stati. Nell’aprile dello stesso anno, McDonald’s diventa la prima catena di hamburger ad entrare a quotarsi a Wall Street, 22 dollari ad azione che poi crescono fino ad arrivare ai 49 dollari in poco tempo. In un decennio, raggiunge il traguardo dei 1.500 ristoranti che operano nel mondo. Nel 1984, l’anno della sua scomparsa, un nuovo McDonald’s apre ogni 17 ore. Dieci mesi dopo l’azienda festeggia i 50 miliardi di hamburger venduti.
Per creare uniformità tra i vari punti vendita, offre ai suoi franchisee un manuale, “The MacDonald’s Method”. Si tratta di una sorta di regole che governano tutta l’attività dell’azienda, da peso degli hamburger, alla quantità degli ingredienti, al tempo della cottura delle patatine, a quante volte il ristorante va pulito. In questi aspetti è un maniaco tanto che nel 1961 apre un centro di formazione, poi diventata Hamburger University.
Lascia ufficialmente la guida della società nel 1974 per dedicarsi a un’altra delle sue passione: il baseball. Acquista e diventa presidente dei San Diego Padres. In quegli anni la catena ha 7.500 ristoranti in 31 Paesi e vale 8 miliardi di dollari. La sua fortuna personale ammonta a 500 milioni. Dopo la sua morte sopravvenuta per un attacco cardiaco, il patrimonio finisce nelle mani di sua moglie che ne spende una buona parte in opere di beneficenza.
Anche nella sua più fervida immaginazione, nei suoi sogni a occhi aperti, non avrebbe mai potuto immaginare il business planetario che avrebbe contribuito a creare: oggi sono oltre 36 mila i fast food dell’azienda che danno lavoro a 420 mila persone. Nell’ultimo anno il Gruppo ha fatturato 25,36 miliardi di dollari, con una capitalizzazione di mercato di 110 miliardi (fonte Forbes).