Abbonati in calo, tante alternative e un mercato in ebollizione: il settore cambia, Netflix soffre più di altri
Lo streaming video si sta sgonfiando? Davanti al moltiplicarsi di piattaforme e ai corposi incrementi del budget che i vari player di settore investono per produrre contenuti originali, l’interrogativo sembra assurdo. E invece no, perché i segnali di crisi ci sono e non possono essere sottovalutati, in quanto sintomo di un cambio di scenario che non si limita al calo di utenti dovuto alla fine del lockdown e il ritorno a una apparente normalità pre Covid-19, grazie alla diffusione delle vaccinazioni che hanno permesso di superare l’isolamento domestico obbligato in voga, con tempistiche e forme differenti, negli ultimi due anni.
Netflix ferma al palo
Il dato più eclatante è la riduzione dell’audience di Netflix, che per la prima volta dal lancio del servizio avvenuto nel 2008 ha registrato un calo degli abbonati. A fronte dei 221,6 milioni di clienti certificati al 31 marzo scorso, il primo trimestre dell’anno si è chiuso con 200.000 spettatori paganti in meno rispetto all’ultimo conteggio (e ribassi del titolo azionario fino al 35%). E se l’azienda con sede a Los Gatos resta in cima al settore grazie ai quasi 30 miliardi di ricavi ottenuti nel 2021, le crepe si allargheranno nei prossimi mesi: poiché le stime della stessa compagnia prevedono una diminuzione di circa 2 milioni di abbonati nel corso del trimestre aprile-giugno 2022.
Sul calo degli utenti pesano vari fattori, come l’imprevista invasione russa dell’Ucraina che ha determinato la sospensione del servizio in Russia con la provvisoria perdita di circa 700.000 abbonati: ma anche la politica dei prezzi di Netflix, che nei mercati di Usa e Canada ha prodotto tre aumenti negli ultimi tre anni (seppur con lievi rincari), portando la versione Premium a 19,99 dollari e quella Standard a 15,49 dollari (in Italia costano, nell’ordine, 17,99 e 12,99 euro). Anche in virtù della centralità del mercato nordamericano, quindi, preoccupano i 600.000 abbonati in meno registrati nell’ultima trimestrale. E in perdita ci sono pure i mercati di Europa, Medio Oriente e Africa (-300.000 complessivi), con la sola Asia in controtendenza grazie al milione abbondante di nuovi iscritti.
Cresce la concorrenza, si riducono i profitti
A colpire Netflix, però, è soprattutto la maggiore concorrenza rispetto al passato: con la rapida crescita di Hbo Max, Hulu e Apple Tv+ ad aggiungersi ai giganti Prime Video e Disney+, con iniziative di lancio, promozioni e tariffe al ribasso per convincere gli utenti a scegliere il proprio servizio che limitano la parabola del leader di mercato (che deve il ruolo guida al sostanziale monopolio di cui ha goduto per anni in passato). La lotta serrata da una parte e la volontà (che per qualche grande gruppo è una necessità) di infilarsi in un settore che nel 2021 ha prodotto un giro di affari da quasi 420 miliardi di dollari delineano un comparto redditizio quanto affollato, che miete vittime e richiede di ripensare formule in grado di soddisfare le esigenze degli utenti.
Secondo uno studio di Nielsen, infatti, solo il 18% degli americani è abbonato a quattro servizi di streaming, il 10% fruisce di cinque e solo il 7% ne paga sei o di più. Con un panorama così ricco di piattaforme simili per proposte e costi, che circoscrivono l’offerta ai contenuti video (con le dovute eccezioni: come Prime Video che è uno dei tanti servizi e vantaggi garantiti dall’abbonamento ad Amazon), è impossibile ripetere la strategia di crescita che ha caratterizzato i primi anni della parabola di Netflix.
Flop fragorosi: da CNN+ a Quibi
Nonostante la sete di video che caratterizza la fruizione di contenuti degli over 40 (e in questo senso va considerata la centralità dei social media, da Instagram a TikTok e YouTube), c’è già chi si è chiamata fuori dal campo. Un mese appena è durato CNN+, piattaforma di streaming del canale all news americano, che ha fissato al 30 aprile lo stop del servizio. Troppo pochi i circa 150.000 abbonati che hanno scelto di pagare 6 dollari al mese o 60 dollari all’anno (saranno tutti rimborsati), troppo netto il tonfo di un progetto che ha bruciato oltre 100 milioni di dollari: senza contare gli addetti ai lavori licenziati o ricollocati.
Se la rinuncia di Instagram a IGTV era nell’aria, fragoroso si è rivelato il flop di Quibi, l’app ideata da veterani di tech e cinema (come Meg Whitman e Jeffrey Katzenberg) per offrire show di massimo 10 minuti ottimizzati per lo smartphone, con abbonamenti inclusi tra 5 e 8 dollari. Forte degli 1,8 miliardi ottenuti dai vari soci (Disney, Comcast, BBC, Goldman Sachs e JP Morgan), la startup sarà ricordata per la rapidità della sua discesa verso gli inferi, concluso con la spartizione dei 350 milioni di dollari rimasti in cassa e il licenziamento di 200 dipendenti.