Quando abbiamo scritto di modeFinance, la startup fintech italiana divenuta agenzia di rating europea, abbiamo parlato di esempi da imitare: cervelli che restano qui. L’ecosistema delle startup italiano, infatti, deve molto alla caparbietà di alcuni talenti che resistono alle sirene del fintech internazionale (leggi Londra). Come Borsadelcredito.it, la startup fondata nel 2013 da Alessandro Andreozzi e Ivan Pellegrini. La società, che nasceva come broker per le imprese, nel 2014 è stata anche tra le vincitrici del Gran Prix di CheBanca!, e nel frattempo si è evoluta in un marketplace lending ed è diventata una holding, la Business Innovation Lab Srl, che controlla al 100% altre due società: Crenway srl, che opera come mediatore creditizio, e la Mo.Net SpA, operatore di p2p lending che a settembre 2015 ha ottenuto l’iscrizione al registro degli istituti di pagamento della Banca d’Italia e a dicembre ha chiuso un round da 1 milione.
Borsadelcredito.it, la resilienza peer-to-peer
Un anno e mezzo in Kpmg e quasi 6 in Accenture. Nato a Tricarico, in provincia di Matera, campano per studi, milanese d’adozione. Antonio Lafiosca è economista ed esperto di accounting, credito e capital markets. E il Ceo di Mo.Net SpA, la controllata di Borsadelcredito (all’interno della quale Lafiosca è chief operating officer) dedita al peer-to-peer. E non nasconde il suo obiettivo dell’anno: «Vogliamo raggiungere 100 milioni in prestiti erogati». Lo abbiamo intervistato.
Parlami di cosa fa uno startupper fintech…
«Sfondi una porta aperta, perché è come chiedere a un giornalista sportivo di commentare le partite il lunedì mattina», sorride.
Bene, quindi ti diverti! Dai, non ci credo che la tua giornata tipo sia uguale a quella di 2 anni fa…
«Al netto di alcune eccezioni la mia giornata-tipo è rimasta abbastanza simile, così come quella del team iniziale. La nostra mission, ogni giorno, è quella di trovare soluzioni di credito alle imprese. E’ cambiata la visibità, il prodotto è cresciuto e ci ci siamo evoluti da broker digitale a p2p lender. Pensa: siamo stati autorizzati dalla Banca d’Italia a inizio settembre, siamo partiti a ottobre siamo partiti e in 2 mesi e mezzo abbiamo fatto quanto facevamo in un anno».
Quindi oltre al prodotto sono cresciuti anche i dipendenti, giusto?
«All’inizio eravamo veramente 4 gatti e, partendo dallo stanzino della casa di uno dei co-founder adesso siamo una dozzina di persone. Quando abbiamo vinto il premio di CheBanca! eravamo in pochi, tutti facevamo tutto. Ora abbiamo un dipartimento dedicato al rischio, uno al marketing e uno tecnologico. Ma come forma mentis abbiamo uno stile che ci consente ancora di mettere il naso in tutte le cose. Cambiano le dinamiche ma non cambia lo spirito».
Il fintech in Italia è lo stesso di 2 anni fa?
«Quando siamo partiti noi, a fine 2013, nel fintech eravamo pochissimi. Eravamo soli, e ci sentivamo anche soli. Ma in 3 anni si sono fatti passi da gigante. Anzi, se penso a 3 anni fa credo proprio che eravamo visti come dei marziani, almeno in Italia, anche se fuori era già esteso».
Siamo sempre in ritardo: colpa degli investitori, delle banche… di chi?
«Difficile individuare colpe. L’Italia è un paese particolare: arriviamo prima su alcune cose e dopo su altre. E’ vero, ad esempio, che siamo indietro come eCommerce, ma siamo anche uno dei paesi dove c’è più concentrazione di smartphone, e usiamo i social quasi come i giapponesi».
Fintech e banche: chi uccide chi
Perché nascono startup fintech come la tua?
«Noi operatori del fintech entriamo in questi mercati perché ci sono degli spazi, e ci sono o perché sono stati abbandonati da vecchi competitor o perché non erano stati coperti. Ma c’è un altro aspetto, i modelli, l’user experience, soprattutto. Diciamo che le banche hanno abbandonato o non hanno mai aggedito determinati settori».
Si può diventare grandi restando in Italia?
«Scalare sul mercato Uk ovviamente aiuta, perché hai la possibilità di ricevere capitali e internazionalizzare. E’ ovvio che il mondo delle startup in Italia non è un mondo che viene agevolato…. Qualcosa è stato fatto, ma probabilmente c’è rispetto agli altri paesi un gap competitivo…»
Qualche idea?
«Le cose da fare sono tante. Più che stimolare il mercato finanziario alternativo si potrebbe equiparare: prima di tutto dal punto di vista fiscale. Chi investe nel nostro strumento di risparmio paga più tasse rispetto un mini-bond di altri paesi. Parliamo del Regno Unito: lì ad esempio non pagano le tasse sul p2p lending. In Italia siamo penalizzati, non solo rispetto ai cugini nel resto d’europa ma rispetto a chi vende titoli azionari, obbligazioni subordinate, ecc… E’ tutto il mercato dei servizi finanziari ad essere penalizzato. E poi…»
Dicci, fuori dai denti…
«Come ci aspettiamo che qualcuno venga a investire qui? E’ molto più facile in Uk valutare una persona o un’azienda (i dati sono tutti pubblici), in Italia è diverso».
Hai la bacchetta magica per un giorno. Cosa fai subito per dare la svolta?
«Purtroppo l’Italia è un paese dove le imprese, spesso per sopravvivere, fanno tanta “ottimizzazione fiscale”, diciamo, per non utilizzare altri termini. Quindi se avessi la bacchetta magica per un giorno le aiuterei sicuramente cancellando molte regole, soprattutto quelle superflue. Poi sostanzialmente non basterebbe neanche Harry Potter, perché qui c’è proprio un aspetto culturale da stravolgere, e c’è bisogno di tempo».
“Le banche? Sono diventate supermercati”
Come immagini le banche tra 5 anni?
«Fatico a fare delle previsioni. O meglio, ho un’idea un po’ futuristica. Pensare a 5 anni per l’Italia mi sembra poco, ma tra 10 anni mi aspetto che ci sarà un terremoto, verranno a mancare proprio i termini di paragone tra banca e fintech. La banca raccoglieva risparmio e lo impiegava. Oggi le banche sono diventate dei supermercati che fanno un po’ di tutto. E rispetto al loro business si sono incartate su se stesse. Non ci sarà più separazione tra banche e fintech, probabilmente nascerà anche un termine nuovo.
Quindi vivranno tutti felici e contenti, startup e banche…
«Le banche seguiranno anche un percorso digitale, un individuo che lavora sul digitale. Gli smartphone e la tecnologia ci consentiranno di allontanarci ancora di più dal contesto tradizionale. E’ vero anche che le banche hanno ancora tanto tempo per cercare di capire che questa è la strada del futuro, e decidere se essere una banca o essere fintech. C’è un rischio che la banca diventi fintech, che la banca acquisisca queste fintech, o che le fintech diventino banche. Ripeto: ci sarà un terremoto, e dopo di ciò sarà tutto più chiaro».
Il cugino più vicino
A chi vi ispirate?
«Il cugino più vicino è Funding Circle, ma noi operiamo su un mercato molto diverso. Purtroppo o per fortuna i mercati, soprattutto quelli europei sono molto distanti l’uno dall’altro. Noi puntiamo tantissimo sui big data rispetto a loro, perché stiamo parlando di un paese come l’Italia dove i dati sono scarsissimi».
E’ un po’ il contrario di quello che hai detto prima sull’internazionalizzazione…
«Può sembrare un’affermazione in controtendenza, ma non lo è. Diciamo che noi prima puntiamo ad affermarci sul nostro mercato. E poi su chi va via sarei più cauto nel dire che sta scalando…»
Perché?
«Perché magari alcuni vanno all’estero perché in Italia non hanno trovato mercato».
Nota: Borsadelcredito.it sarebbe in trattativa per chiudere un accordo con «un investitore istituzionale», non siamo riusciti a strappare qualche notizia in più a Lafiosca. Ma vi terremo aggiornati.
Aldo V. Pecora
@aldopecora
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