Il 2019 sarebbe dovuto essere per molti analisti l’anno delle IPO delle fintech. Secondo le stime, il numero delle startup della finanza tecnologica a quotarsi in Borsa avrebbe superato il “magro” bottino del 2018 (con appena quattro fintech a varcare le porte di Wall Street e delle altre Borse più famose del Pianeta).
Dove sono allora le IPO delle fintech? È la domanda da cui sono partiti le analisi di due aziende di consulenza leader nella finanza tech: PitchBook e CB Insight. Ecco cosa è emerso.
I leader fuggono dalla Borsa
Non sono mancate le grandi IPO nel 2019. Uber, Lyft, Pinterest, Zoom, sono solo alcune delle startup che hanno deciso di quotarsi. Durante l’anno, poi, arriveranno le già annunciate IPO di due grandi player come Slack e WeWork.
Tra queste,, nessuna è una fintech. Eppure, non mancano i numeri. Le 10 fintech più valutate al mondo hanno tutte tra i sei e i 10 anni di vita, hanno raccolto centinaia di milioni di dollari, sono unicorni, ma nessuna di queste sembra interessata all’ipotesi di una quotazione.
Ecco la top ten, pubblicata da PitchBook:
- Stripe: fondata nel 2009. Valore: $22,5 miliardi
- Coinbase: fondata nel 2012. Valore: $8.1 miliardi
- Robin Hood, fondata nel 2013. Valore: $5,6 miliardi
- Sofi, fondata nel 2011. Valore: $4,8 miliardi
- Credit Karma, fondata nel 2007. Valore: $4 miliardi
- Klarna, fondata nel 2005. Valore: $3,6 miliardi
- TransferWise, fondata nel 2010. Valore: $3,5 miliardi
- Oscar, fondata nel 2012. Valore: $3,2 miliardi
- Circle, fondata nel 2013. Valore: $3 miliardi
- Affirm, fondata nel 2012. Valore: $3 miliardi
Leader della classifica è Stripe, la startup guidata dai fratelli Collison. A una conferenza a febbraio, John e Patrick hanno dichiarato di non avere nessuna IPO in cantiere. Situazione simile a un altro unicorno come TransferWise che recentemente ha raccolto 292 milioni, superando i tre miliardi di valutazione. Il Ceo Kristo Käärmann non ha però mostrato alcuna fretta di quotarsi in Borsa.
Perché mancano IPO nel fintech?
Una delle risposte possibili a questa domanda, secondo Pitchbook e CBInsight, sono i mega round che hanno visto protagoniste le fintech negli ultimi anni. Ricordiamone alcuni: i 500 milioni raccolti da SOFI, i 200 da Robinhood, i 300 da Affirm e ancora 300 da Coinbase, solo negli ultimi due anni.
CBInsight mette a confronto i mega round chiusi dalle fintech dal 2014 al 2018: solo nell’ultimo anno, le startup del settore hanno raccolto complessivamente fondi per un valore totale di circa 25 miliardi, registrando una crescita incredibile negli ultimi quattro anni, come mostrano i dati raccolti da CBInsight:
In altre parole, i mega round sono diventati una valida alternativa alla raccolta di soldi attraverso le IPO. Con la crescita dei “late stage capital” le fintech non sentono più la necessità di quotarsi per finanziare le loro operazioni.
Le IPO che fanno paura
Ci sono, tuttavia, anche altri motivi che spiegherebbero la scomparsa delle IPO nel fintech. Se è vero che alcune IPO del 2018 hanno soddisfatto gli investitori (vedi quelli dell’olandese Adyen e della britannica Integrafin), altre non hanno avuto lo stesso successo: pensiamo a quelle che vedono protagoniste le americane GreenSky ed Everquote, che hanno entrambe avuto un andamento altalenante.
Ci sarebbero poi altri motivi che spiegano l’avversione delle fintech verso le IPO:
- La necessità di doversi confrontare continuamente con le normative dei vari governi.
- Il bisogno di dover ottenere licenze diverse in ognuno dei Paesi in cui operano per alcuni servizi che offrono.
Una situazione che ne rallenta la scalabilità e quindi anche l’eventuale appetibilità in Borsa da parte degli investitori.
Le opinioni dei leader del fintech italiano
Il 2019 è l’anno della prima IPO di una fintech italiana, quella che vede come protagonista CrowdFundMe, ne parliamo qui.
L’ingresso in Borsa della piattaforma di equity crowdfunding potrebbe fare da apripista ad altre fintech. Abbiamo interpellato alcuni leader del fintech italiano che danno la loro opinione sul rapporto tra IPO e fintech.
Partiamo da Moneyfarm, una delle fintech leader in Italia ed Europa:
«Quello del Fintech è un settore relativamente giovane, con modelli che prevedono spesso la necessità di costruire una base clienti ampia nel corso degli anni. Molte Fintech preferiscono non quotarsi perché hanno multipli molto alti nel mercato dei capitali privati, mentre la quotazione potrebbe significare per loro una revisione al ribasso. Non va dimenticato che il Fintech è nato nel periodo post crisi economica, in cui vi è stata abbondanza di capitali privati. Manca quindi, a oggi, la necessità per queste società di quotarsi. Ma la situazione potrebbe cambiare nei prossimi 10 anni, periodo in cui potremmo vedere molte IPO di società Fintech», spiega Paolo Galvani, founder e presidente di Moneyfarm.
Più giovane di Moneyfarm, WorkinVoice, nata nel 2015, ha saputo diventare uno dei più importanti player dell’invoice trading, il canale alternativo per l’anticipo fatture (nel 2018 le fatture scambiate sulla piattaforma hanno superato i 200 milioni):
«Molti fondatori stanno scoprendo che andare public raramente porta davvero valore aggiunto – a parte, ovviamente, consentire una rapida e apprezzata infusione di denaro. Una società di medie dimensioni con prestazioni solide che fa un IPO deve aspettarsi di essere giudicata con gli standard di grandi corporation. Per le aziende tecnologiche di medie dimensioni, inoltre, sono diventate molto più redditizie le acquisizioni: viene infatti creato valore maggiore in una vendita a un acquirente strategico nello stesso settore o in un settore correlato. Per le grandi fintech, poi, ci sono ulteriori svantaggi nell’andare public: in particolare ci si apre a un esame molto più generico da parte di persone che a volte, ancora oggi, non capiscono a fondo il business e sono fondamentalmente interessate a risultati di breve termine, laddove anche le fintech più veloci richiedono più tempo», è l’opinione sull’argomento di Matteo Tarroni, ceo e founder di Workinvoice.