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Intervista a Deborah Piovan, imprenditrice agricola e portavoce del Manifesto “Cibo per la mente”, a margine della terza tappa del progetto “Biotech, il futuro migliore – Per la nostra salute, per il nostro ambiente, per l’Italia”
“Tra le numerose sfide della società nel nostro tempo c’è sicuramente l’urgenza di produrre cibo in modo sostenibile, sia per l’economia che per l’ambiente. L’innovazione è un fattore importante per raggiungere questo obiettivo ed è quindi necessario liberare le biotecnologie da vincoli normativi ormai obsoleti. Le paure vanno rispettate, ma affrontate, e le posizioni ideologizzate, abbandonate”. Deborah Piovan – imprenditrice agricola, dirigente di Confagricoltura e portavoce del Manifesto “Cibo per la mente” – ha espresso la sua posizione in maniera chiara e netta durante il tavolo di lavoro “Ripensare consumi e impronte sul mondo: anche in Italia la rivoluzione della bioeconomia” che si è tenuto lo scorso 14 settembre e ha costituito la terza tappa del progetto “Biotech, il futuro migliore – Per la nostra salute, per il nostro ambiente, per l’Italia”, promosso da Assobiotec Federchimica in partnership con StartupItalia.
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Il progetto, tra giugno e ottobre, prevede quattro appuntamenti preparatori a un grande evento finale, il 9 novembre 2020, che diventerà l’occasione per presentare un Manifesto e, soprattutto, un Documento di Posizione – con proposte operative per la crescita del settore, lo sviluppo delle imprese e il rilancio del Paese – da mettere a disposizione del governo.
Piovan è stata una delle relatrici del terzo e penultimo tavolo di lavoro, a cui hanno partecipato oltre 30 esperti – tra associati di Assobiotec, stakeholder e Istituzioni – che hanno avviato una riflessione condivisa sulle potenzialità e i vantaggi per la salute e l’ambiente della bioeconomia, intesa come un nuovo paradigma di sviluppo economico e sociale, che parte dalla rigenerazione dei territori e dall’impiego di risorse biologiche rinnovabili (e locali) come materie prime per un’industria sostenibile e innovativa. Uno scenario dove le biotecnologie industriali e agricole giocano un ruolo cruciale. Ne è emerso un quadro che è stato rappresentato nell’infografica che vedete qui sotto, realizzata dall’illustratrice Irene Coletto.
Abbiamo intervistato la Dott.ssa Piovan, per approfondire alcune delle tematiche emerse nel corso del suo intervento.
Intervista a Deborah Piovan
StartupItalia: Dott.ssa Piovan, partiamo dallo slogan di “Cibo per la mente”: produrre di più e meglio con meno. Che intendete?
Deborah Piovan: Il Manifesto è stato sottoscritto da 16 associazioni di imprese che operano nel settore agroalimentare, per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulla necessità di maggiori investimenti in innovazione e ricerca nel campo dell’agricoltura e dell’industria alimentare. Il nostro obiettivo è proprio quello di lavorare con il mondo della ricerca per usare al meglio tutti i fattori produttivi – dalla terra all’acqua, dai fertilizzanti che nutrono le piante ai vari strumenti di protezione – rendendoli efficienti al massimo, in un’ottica di sostenibilità economica e ambientale. Il digitale, ad esempio, è uno strumento molto importante per ottimizzare gli input produttivi: grazie ai big data, possiamo estrarre dal campo informazioni preziose, in grado di rivelarci di cosa ha bisogno una coltura in un certo momento, con la conseguente riduzione degli sprechi.
Biotecnologie per l’agricoltura
SI: Che ruolo possono giocare le biotecnologie?
DP: Sono lo strumento principe, a cui noi guardiamo con grande speranza e fiducia. Le biotecnologie consentono davvero un salto di qualità, permettendoci di selezionare la varietà di pianta più adatta a ogni realtà agro-pedo-climatica (che riguarda insieme le condizioni del suolo e del clima locali, ndr), ogni situazione patologica e avversità che rischi di intaccare il raccolto. Grazie a queste tecnologie, possiamo compiere delle scelte molto più precise, perché le varietà selezionate risultano più performanti in determinati contesti, con un riflesso positivo anche per la tutela della biodiversità.
SI: L’agricoltura italiana è pronta ad affrontare le sfide del miglioramento genetico?
DP: Noi siamo pronti e non chiediamo altro. Per trovare le risposte alle sfide sempre più complesse e urgenti da affrontare, a partire dai cambiamenti climatici, credo e ribadisco che il mondo agricolo debba lavorare assieme a quello della ricerca, in modo che l’uno possa condividere le proprie necessità con l’altro. Ma, prima di tutto, dobbiamo superare un “peccato mortale” sotto il profilo giuridico.
SI: Quale?
DP: Quello derivante dalla direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, che regolamenta gli organismi geneticamente modificati. Il suo “peccato mortale” nasce dal fatto di aver regolamentato una tecnica, quando avrebbe dovuto regolamentare un prodotto.
SI: Facciamo un esempio per inquadrare meglio la questione.
DP: Se leggo un libro, non mi interessa se è stato scritto con il pc, la macchina da scrivere, la biro o la penna d’oca. Mi interessa il contenuto e per quello lo giudicherò, anche severamente. Non vado a giudicare lo strumento con cui è stato scritto. Lo stesso discorso può essere applicato alle piante migliorate dai ricercatori che si occupano di genetica agraria. Valutiamo la pianta che otteniamo: la sua utilità, sicurezza, se vale la pena proporla sul mercato, se risolve dei problemi di tipo ambientale, per le imprese e/o i consumatori. La mia opinione, che tra l’altro coincide con quella di molti ricercatori, è che la correzione del genoma delle piante possa produrre delle modifiche puntuali, simili a quelle che possono avvenire in natura. Le cosiddette Tecnologie di Evoluzione Assistita (TEA), infatti, vanno a imitare quello che compie l’evoluzione naturale, dove però è il caso a dominare il processo, mentre oggi i ricercatori sono in grado di portarlo avanti in modo preciso e mirato, aumentando la sicurezza del prodotto ottenuto. Quindi, c’è solidità scientifica per chiedere di esentare le piante derivanti dalle TEA dagli scopi della direttiva 2001/18/CE, a cui ho accennato.
Una nuova immagine per l’agricoltura italiana
SI: Nella riunione a porte chiuse, lei ha sottolineato la necessità per l’agricoltura italiana di acquisire una nuova immagine presso l’opinione pubblica perché altrimenti ne risentirà tutta la società. Che cosa rischiamo?
DP: La mia sensazione è che la società chieda all’agricoltura di mantenere un paesaggio che vede come un giardino. Da una parte, è bello vedere la campagna come uno spazio ricreativo, ma non dobbiamo dimenticare che è anche e soprattutto uno spazio per la produzione di cibo. Con una realtà che cambia di continuo intorno a noi, se non innoviamo gli strumenti con cui produciamo il cibo, rischiamo di produrne sempre di meno e in modo inefficiente. Quindi, saremo costretti a importarne sempre di più dall’estero, comprese le materie prime che ci servono per produrre il made in Italy.
SI: Addirittura?
DP: È un processo già in corso, con tutte le conseguenze del caso. Penso al mais, ad esempio, che forse è stata la prima vittima, in termini di tempo, di questo rifiuto dell’innovazione: fino a 10 anni fa eravamo autosufficienti per il nostro fabbisogno di mais, ora ne importiamo la metà, che in parte serve a produrre le nostre DOP di prosciutti e formaggi. Le importazioni comportano il trasporto di cibo e materie prime da altri paesi verso l’Europa e, quindi, emissioni di gas a effetto serra. Ma importare significa anche entrare in competizione con paesi che hanno un minor potere d’acquisto, rischiando di generare tensioni sociali. E non possiamo trascurare il fatto che il cibo importato è stato ottenuto con metodi di produzione diversi da quelli europei, che rispettano le regole più severe al mondo, al riguardo. Insomma, non possiamo permetterci di abdicare al nostro controllo su come viene prodotto il cibo, per inseguire quell’ideale bucolico che ci viene descritto da un marketing molto abile ed efficace, ma che non esiste nella realtà.
SI: Lei ha dichiarato che è necessario aiutare la società ad accogliere l’innovazione in agricoltura anche per tutelare la biodiversità, sia quella naturale che quella relativa ai prodotti tradizionali. Approfondiamo questo aspetto.
DP: Se produciamo di più e meglio con meno – come recita lo slogan di “Cibo per la mente” – non andiamo ad aumentare le terre coltivate per sfamare una popolazione in continua crescita. Perché il nostro cibo lo andiamo a produrre in modo più efficiente, in un’ottica di sostenibilità ambientale, nelle terre che già coltiviamo, senza intaccare habitat naturali. Alcuni poi chiamano biodiversità anche la ricchezza varietale, che è tipica del nostro Paese. Ma anche questa può essere tutelata grazie alle TEA. Ci sono, infatti, delle varietà molto gradevoli al palato, famose presso consumatori e turisti, che purtroppo sono anche molto vulnerabili, perché non riescono ad adattarsi ai mutamenti climatici oppure sono minacciate da avversità verso le quali risultano inermi.
SI: Ad esempio?
DP: Il pomodoro San Marzano, nonostante il lavoro egregio del consorzio di tutela, è diventato un po’ difficile da trovare, perché si tratta di una varietà di pomodoro molto suscettibile a una virosi, per cui non c’è alcuna soluzione per prevenire o curare l’infezione. L’unica strada è migliorare la varietà sotto il profilo genetico, in modo che possa difendersi da sola dal virus. Il miglioramento genetico ci consegnerebbe lo stesso pomodoro San Marzano, ma in grado di proteggersi dalla malattia, senza alcuna conseguenza per il gusto, il consumatore e l’ambiente, salvando un prodotto tipico della cultura gastronomica italiana. Innovazione e tradizione non sono due concetti antitetici: al contrario, la salvaguardia delle tradizioni può essere garantita proprio grazie all’innovazione.
La sfida europea
SI: La Commissione europea, lo scorso maggio, ha presentato la strategia “Farm to Fork”, che è al centro del Green Deal europeo, per raggiungere un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente. Cosa rappresenta questa strategia per il mondo agricolo?
DP: Una sfida straordinaria. Le decisioni che verranno prese avranno un impatto sulla competitività degli agricoltori, sulla quota di autosufficienza alimentare del continente, sulla sicurezza alimentare e sull’ambiente. È bene, però, che l’implementazione di qualsiasi strategia ascolti la voce degli agricoltori in un’ottica di inclusività. Inoltre, una buona governance deve prevedere di introdurre delle valutazioni di impatto ex ante di qualunque proposta, sia per le conseguenze economiche che per quelle ambientali. Ma voglio sottolineare un altro aspetto.
SI: Prego.
DP: Dati del ministero della Salute alla mano, il nostro cibo è già sicuro e sano. Questo sta a testimoniare che gli agricoltori italiani si stanno impegnando molto per migliorare la propria impronta ecologica, quindi quello che auspica la Commissione europea sta già avvenendo nel nostro Paese. Tuttavia, senza protezioni adeguate, più della metà dei nostri pasti svanirebbe a causa di insetti, erbe e malattie varie. Non dimentichiamo che la FAO ha dichiarato il 2020 come anno internazionale della salute delle piante, stimando che ogni anno il 40% dei raccolti mondiali va perso a causa della mancanza di adeguati strumenti protettivi. È inaccettabile una perdita del genere. Pertanto, guardiamo con grande speranza e fiducia alla ricerca scientifica nel settore, soprattutto alle biotecnologie applicate al miglioramento genetico delle piante.
Le proposte per l’Italia (e non solo)
SI: Nel Documento di Posizione che verrà presentato a novembre, nell’ambito del progetto “Biotech, il futuro migliore”, lei cosa inserirebbe come proposta operativa?
DP: Avrei due proposte. La prima riguarda la necessità di trovare la forma giuridica per esentare le TEA dagli scopi della direttiva 2001/18/CE. Secondo me, queste tecniche possono essere considerate una forma di mutagenesi. È da quasi un secolo che utilizziamo tali strumenti in agricoltura con risultati molto interessanti, ma altrettanto casuali. Ora, grazie alle TEA, possiamo operare sulle piante in modo più preciso, perdendo meno tempo, spendendo meno soldi e con più probabilità di successo. Questi nuovi strumenti possono essere equiparabili alle tradizionali tecniche di miglioramento genetico con uso di mutagenesi, attualmente esentate dalla direttiva europea.
SI: E la seconda?
DP: Bisogna autorizzare e avviare le prove in campo aperto per vedere come si comportano nell’ambiente di coltivazione queste piante geneticamente migliorate, aprendo le porte alla società civile, attraverso servizi giornalistici – soprattutto televisivi – e fiere in campo. Così, chiunque sia interessato a queste tematiche, può vedere ciò di cui stiamo parlando, per comprendere meglio questo nuovo approccio responsabile, competente e serio alla produzione di cibo.