In 10 anni l’Italia ha perso 500mila connazionali, 250mila sono ragazzi. Una emorragia che al Paese ha fatto perdere 16 miliardi di euro
Sedici miliardi di euro. Più di metà dell’importo complessivo della Legge di bilancio 2020 che l’esecutivo sta approntando. Tanto costa la fuga dei giovani (e non solo) che lasciano il nostro Paese per non ritornarvi.
La fuga dei giovani italiani
È la fotografia, assai fosca, scattata dalla Fondazione Leone Moressa nel suo nono Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Secondo i dati raccolti, il nostro Paese è tornato, come all’inizio del secolo scorso, terra di tristi partenze. Di “migranti economici”, si direbbe oggi. In dieci anni, tenendo conto del saldo tra partenze e rientri, l’Italia ha perso quasi 500 mila connazionali. Una sconfitta non soltanto sociale ma anche economica: considerato che lo Stato investe nell’istruzione dei suoi cittadini e stimato il valore della forza lavoro che è venuto meno, il danno per le nostre casse è pari a 16 miliardi di euro, oltre 1 punto di Pil.
Chi fugge per non tornare?
Attenzione: non si è di fronte soltanto a una fuga di giovani. Che restano comunque tantissimi. Su mezzo milione di emigrati, 250 mila avevano tra i 15 e i 34 anni. Uno su due. Come era prevedibile, la causa principale dell’addio all’Italia è la mancanza di opportunità lavorative concrete. Nonostante le recenti buone novelle (la percentuale di chi cerca un lavoro e non lo trova nella fascia 15-24 anni ad agosto 2019 è calata di 1,3 punti percentuali su base mensile, portandosi al 27,1%, il punto più basso dal 2010, cioè proprio del periodo compreso dalla ricerca della Fondazione), chi emigra lo fa nella speranza di trovare lavoro. E anche un salario maggiore.
Le regioni di partenza
Queste le ragioni della partenza. Quanto alle regioni di partenza, il report sfata il mito che a emigrare siano soprattutto i meridionali. Circa un quinto dei giovani che hanno lasciato l’Italia negli ultimi dieci anni se ne è infatti andato dalla Lombardia (18,3%). Oltre 20mila emigrati sono veneti che segue a ruota assieme a Sicilia e Lazio. A essersi fermato, quindi, risulta proprio il motore produttivo del nostro Paese. E il report non tiene conto delle migrazioni interne, quelle cioè dal Meridione al Settentrione, riprese nell’ultimo periodo e acuite negli anni della crisi.
Chi resta?
Quindi chi resta in Italia? Soprattutto gli anziani. Ce lo dicono altri dati, quelli dell’Istat, che certificano ormai il declino demografico imboccato dal Paese più vecchio del Vecchio continente. Secondo l’ultimo resoconto, al 31 dicembre 2018 gli italiani erano 55 milioni 104 mila, 235 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,4%), 677 mila in meno sul 2014: è come se in un lustro fosse scomparsa una città grande come Palermo.
L’apporto dell’immigrazione
Al centro di infuocate polemiche politiche, l’immigrazione riveste un ruolo cruciale nel saldo tra chi va (per cercare fortuna o perché, essendo vecchio, muore) e chi resta. L’Istituto di Statistica ha sottolineato che negli ultimi quattro anni i nuovi cittadini per acquisizione della cittadinanza sono stati oltre 638 mila. Senza questo apporto, il calo degli italiani sarebbe stato intorno al 1 milione e 300 mila unità. Non solo. Sempre secondo i numeri comunicati dalla Fondazione Leone Moressa, nel 2018 i 2,5 milioni di lavoratori stranieri, pari al 10,6% degli occupati totali, hanno prodotto una ricchezza stimabile in 139 miliardi di euro, cioè il 9% del Pil. E soprattutto si configurano come la platea su cui graverà il costo sociale delle pensioni nell’immediato futuro. Salvo che il governo non riesca a invertire il trend. E se convincere gli italiani – sempre più vecchi – a fare figli potrebbe non essere facile per la politica, incentivare i pochi giovani ancora presenti nel Paese a restare è invece un compito più facilmente realizzabile. Il prima possibile, perché l’orologio biologico corre.