Grab è un servizio molto simile a Uber, ma che ha cura dei propri dipendenti, delle loro famiglie, della loro condizione. Impresa sì, ma anche welfare aziendale. Il suo modello, spiegato
Con un minimo di forzatura, lo si potrebbe definire forse “l’Uber dal volto umano”. Mentre il servizio di ride-sharing americano deve sovente affrontare non soltanto l’ostilità di molti governi, ma anche le vibranti proteste degli autisti americani, non molto contenti degli improvvisi e consistenti (-15%) tagli alle loro remunerazioni e pronti a una class action per essere contrattualizzati, Grab, un servizio molto simile presente nel Sudest asiatico, ha scelto una strada diversa.
«Cerchiamo di lavorare assieme ai governi invece che contro di loro – racconta la vice presidente di Public Policy, Nina Teng, presente a Losanna per il Seedstars World Summit, dove la incontriamo – pensiamo esista un terreno comune fra quello che entrambi stiamo facendo. Loro, così come noi, sono preoccupati della sicurezza dei loro passeggeri, della qualità degli autisti, di rendere più strutturato il mercato».
Sul fronte del benessere degli autisti, Grab, oltre a finanziare una sorta di “fondo di emergenza” per gli autisti migliori, organizza scuole e corsi di formazione per i loro figli, e ha introdotto delle misure – come l’offuscamento del loro numero telefonico, nel caso debbano fare una chiamata all’autista – per aumentare la sicurezza delle passeggere che usano il servizio. A inizio marzo, la startup ha lanciato l’assicurazione gratuita contro gli incidenti per autisti e passeggeri dei servizi GrabCar e GrabBike
Storia di Grab, dagli inizi al successo
Grab è una società nata nel 2011 in Malesia, con il nome di Myteksi. I due fondatori, Anthony Tan e Tan Hooi Ling, tutti e due malesi, dopo aver frequentato la Harvard Kennedy School negli Usa assieme a Teng, hanno deciso di far ritorno in patria. Oggi la startup ha cambiato nome, prima in GrabTaxi e poi nell’ancor più conciso Grab, e spostato il quartier generale a Singapore.
Inizialmente, l’idea era quella di lanciare un’applicazione per aiutare i tassisti di mercati emergenti, come quello malese, o quelli indonesiano, vietnamita, thailandese e filippino ad aumentare il numero di corse richieste, rendendone più efficiente la prenotazione e gestione.
Il successo è stato però tale che il servizio si è presto espanso, e sono arrivati GrabCar (simile a UberPop, o UberX), GrabHitch (per il car pooling) e GrabBike, per condividere lo scooter, e GrabExpress, per la consegna di pacchi e documenti. Oggi la startup opera in 28 città, dalla Thailandia a Singapore, dalla Malesia a Filippine e Vietnam.
Se sul fronte della collaborazione coi governi l’espansione è filata abbastanza liscia, questo non significa i problemi siano mancati del tutto. «Più che dai governi, gli attacchi sono venuti da alcuni concorrenti – spiega Teng – che ci hanno accusato di operare in maniera illegale, dato che quello della mobilità condivisa è un settore che presenta molte aree grigie».
Pochi problemi con i governi,
di più a cercare di convincere gli autisti a usare uno smartphone
Un altro problema, all’inizio, è stato quello di convincere gli autisti a usare lo smartphone. “Molti non avevano i soldi per comprarlo, così li abbiamo aiutati ad ottenere dei micro-finanziamenti – continua la manager – e poi, dato che molti appartenevano a generazioni non avezze al digitale, gli abbiamo spiegato come usarlo”.
Una delle caratteristiche che differenzia la app dai concorrenti, è che il software comunica subito all’autista la destinazione del passeggero, in modo che il primo possa organizzarsi il giro nella maniera più efficiente (evitando magari di prendere corse che lo porterebbero in zone troppo isolate, o distanti).
Differenze sul piano sociale, ma il business model è uguale a quello di Uber
Per il resto, il modello di business è abbastanza simile a quello di Uber, Lyft e altri concorrenti, e si basa su una commissione sulle transazioni. Teng non dice a quanto ammonta, limitandosi a dire che è “molto piccola” e “varia a seconda dei Paesi”. Da mettere in conto anche una sovrattassa che alcuni governi applicano per il diritto di “chiamata”.
In ogni caso, l’applicazione aiuta gli autisti ad ottenere più lavoro: un paio di anni fa, la società ha dichiarato che, dai feedback ricevuti, i tassisti di GrabTaxi avrebbero riscontrato un aumento del loro reddito, a seguito dell’utilizzo del software, compreso fra il 30% e il 300% in più.
Si tratta di dati difficili da controllare, ma quello che è certo è che un numero crescente di persone si sta iscrivendo al servizio: ad oggi Grab può contare su circa 220.000 autisti, sparsi nei vari mercati in cui opera.
Per accedere agli incentivi “previdenziali”, i driver devono possedere alcuni requisiti minimi: lavorare almeno da sei mesi per Grab, e avere delle valutazioni elevate da parte dei passeggeri. In teoria, dato che gli autisti mediocri o pessimi vengono dopo un certo tempo espulsi dal sistema, la maggior parte dei collaboratori della startup, passato il semestre, dovrebbe poter usufruire del fondo di emergenza, grazie a cui limitare il contraccolpo derivante, ad esempio, da un’improvvisa malattia o da un infortunio. Cosa di cui, per esempio, i lavoratori di Uber non possono usufruire.
Per ora le cose filano, ma se Uber arrivasse da quelle parti…
Il business prospera, ma c’è sempre l’incognita del concorrente americano. Il super-unicorno Uber, forte di miliardi di investimento, sta cercando di espandersi anche in Asia, dove operano però, oltre a Grab, anche altri concorrenti. Ed è proprio in funzione anti-Uber che, secondo alcuni osservatori, è nata lo scorso dicembre un’alleanza fra Grab, Lyft, il cinese Didi Kuaidi e l’indiano Ola, grazie alla quale gli utenti di un servizio, quando viaggiano all’estero, in una zona coperta da uno degli altri partner, possono usufruirne senza dover installare un’altra applicazione.
«Non posso affermare che sia questa la ragione – dice Teng – posso solo dire che per noi ha senso farlo perché si tratta di compagnie che adottano tutte un business model simile e presenti in Asia. Dal canto nostro, non vogliamo espanderci al di fuori del Sudest Asiatico, per cui ha senso per noi dare la possibilità ai nostri clienti di passare senza problemi a un altro servizio, quando sono in viaggio».
La sfida al gigante d’Oltreoceano sarà comunque dura. Forse il maggiore alleato di Grab in questa battaglia è il radicamento sul mercato locale, e la condivisione di certi valori tipicamente asiatici (la Cina è un caso a parte), come quello del servizio alla comunità, col prevalere dell’interesse collettivo su quello individuale, una diversa sensibilità, di cui Uber sembra a volte mancare.