Industria, servizi finanziari e fiumi di denaro dai casinò: la nuova conurbazione sarà un “mostro” da 67 milioni di persone. Ma l’ex colonia britannica teme di essere fagocitata.
Cinquantacinque chilometri di piloni, asfalto e cemento armato possono cambiare le gerarchie dell’economia mondiale, trasformando un’area altamente industrializzata – ma politicamente disomogenea – nella nuova Silicon Valley. Manca il silicio, ma c’è la tutta la potenza di fuoco della Cina nel progetto che potrebbe vedere la Greater Bay Area trasformarsi nel quarto esportatore del mondo, scalzando il Giappone, con 67 milioni di persone e un’economia del valore complessivo di 1.000 miliardi di euro. Il ponte è già costruito, taglio del nastro previsto per i prossimi mesi.
Numeri da capogiro per il ponte dei sogni
Che siano infrastrutture fondamentali per l’economia è cosa nota, ed è stato evidenziato anche dopo la tragedia del ponte Morandi a Genova: ma se i territori connessi sono Shenzhen, Macao e Hong Kong, i numeri sono destinati a incidere sulle sorti del capitalismo globale.
Il piano del presidente cinese Xi Jinping è semplice: cercare di sfruttare al massimo le sinergie fra l’industria cinese, i servizi finanziari di Hong Kong – britannica fino al 1997 – e il flusso di denaro attratto dai casinò di Macao, portoghese fino al 1999.
Entrambe le ex colonie, tornate in anni recenti sotto la sovranità di Pechino, godono di uno status particolare nell’ambito della Repubblica Popolare.
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“Un paese, due sistemi”: la svolta di Deng
Un po’ di storia consente di comprendere meglio. Le trattative per il ritorno alla Cina, avviate nel 1979, rischiavano di arenarsi di fronte all’apparente rigidità del governo comunista. Hong Kong era amministrata secondo principi capitalisti, e l’obiettivo del Regno Unito era evitare l’azzeramento della tradizione politica e culturale occidentale che si era andata costruendo nel corso di 150 anni di dominio britannico.
La questione si risolse per mano di Deng Xiaoping, il padre delle “quattro modernizzazioni” e della via cinese al socialismo: una visione per certi versi eretica, che non escludeva il mercato, e fu la base dello sviluppo degli anni a venire. Fu Deng a coniare la formula “Un paese, due sistemi” per sigillare l’autonomia di Hong Kong e Macao, dotate di ampi margini pur rimanendo a tutti gli effetti sotto l’ombrello cinese. In pratica, Pechino decideva la politica estera e di difesa, ma ai territori era lasciata una libertà amministrativa che arrivava, addirittura, al mantenimento di una propria valuta. Uno status che le rese ponte tra Oriente e Occidente.
Shenzhen: da 30mila abitanti a 13 milioni in pochi anni
La rapida industrializzazione, che vide Hong Kong passare dai 600mila abitanti del 1945 agli attuali oltre 7 milioni, fu favorita anche dalla vicinanza della città di Shenzhen, divenuta Zona Economica Speciale sempre per volere di Deng. Il leader ne intuì il potenziale strategico.
Se la crescita demografica di Hong Kong è stata impressionante, quella di Shenzhen è stata, però, addirittura strabiliante. La città è passata dai 30mila abitanti degli anni Settanta ai circa 13,5 milioni attuali nel corso di soli 30 anni – un primato mondiale – e ospita i quartier generali di giganti della tecnologia come Tencent e Huawei.
I principi che regolano le Zone Economiche Speciali prevedono tassazione ridotta e policy tese ad attrarre investimenti stranieri. L’esperimento di Deng, senz’altro riuscito, è diventato caso di studio e ha creato le basi per lo sviluppo successivo: quello che sarà innescato domani dal ponte, e da una “bretella” ferroviaria da 11 miliardi voluta dal governo per collegare Hong Kong alla rete ad alta velocità cinese. Già oggi gli scambi – merci e lavoratori pendolari – sono intensi: le nuove infrastrutture creeranno una conurbazione ancora più interconnessa.
I timori di Hong Kong per l’autonomia
Un fenomeno che, in piccolo, ricalca gli schemi della globalizzazione. Il costo da pagare per scambi più facili è, spesso, un appiattimento della diversità culturale. Potrebbe essere così anche in questo caso.
Gli imprenditori sono ovviamente entusiasti, riporta Bloomberg. Horace Zheng – 38 anni, nome occidentale e cognome orientale – è abituato a operare su entrambi i lati del ponte, a cavallo tra capitalismo e socialismo. Vice presidente di Youibot Robotics, una startup, vuole che la Greater Bay Area “decolli”, riporta il media economico. Anche le compagnie straniere con sede nell’area sono estremamente attratte dalle opportunità commerciali.
Ma nella “società civile” a Hong Kong sono in molti a temere che la città possa essere fagocitata da Shenzhen, e quindi, metaforicamente, da Pechino. Una questione di identità culturale, ma non solo. “E’ la vecchia tattica comunista di usare la politica economica per imporre controllo politico” dichiara, sempre a Bloomberg, Sonny Lo, professore di scienze politiche all’università cittadina. “Il ponte, la ferrovia – fino ad ora i governi di Pechino e Hong Kong si sono concentrati sull’hardware” ha aggiunto Alvin Yeung, leader di un partito di opposizione, il Civic Party. “Ma il software che rende Hong Kong unica conta di più – aggiunge – Lo stato di diritto, la libera circolazione dei capitali, che dall’altra parte del ponte mancano”.
Hong Kong gode di una propria Legge Fondamentale (Basic Law), una sorta di Costituzione, modellata sulla base della common law britannica. Nonostante il potere di interpretazione della Carta sia esplicitamente lasciato all’Assemblea Nazionale del Popolo, il testo configura un sistema profondamente diverso da quello socialista. La giustizia è amministrata sulla base del diritto britannico, e le corti possono fare riferimento, come precedenti per orientarsi nella risoluzione delle controversie, alle decisioni di altri ordinamenti di common law. La diversità è stata tollerata dai gerarchi comunisti: ma, evidentemente, solo in ottica transitoria.
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2047, la fine del sogno di un’enclave occidentale in Oriente
“Nel lungo periodo saremo tutti morti” ripeteva Keynes. Ma la Cina, paese dalla tradizione millenaria, è abituata a ragionare in una prospettiva che agli occidentali, avvezzi alla democrazia e alle brevi alternanze che porta in dote, risulta incomprensibile. E lo è perfino ai cinesi di Hong Kong, formati in scuole e università di matrice britannica. L’illusione di una enclave occidentale in Oriente, con cui sono cresciuti, e con cui speravano di morire, potrebbe finire presto.
E’ la stessa Legge Fondamentale a rendere chiara la visione di Pechino. “Il sistema socialista e le sue politiche non saranno applicate nella Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong, e il precedente sistema e stile di vita capitalista resterà invariato per 50 anni” recita l’articolo 6 della Carta. Non dice “per almeno 50 anni”: il termine è già fissato senza possibilità di dubbio, ed è il 2047. Il nuovo ponte è un monito: ricorda al mondo che, nell’ottica del governo cinese, la transizione della città al socialismo è data per scontata.