L’apertura del campus Apple a Napoli è stata una delle novità più importanti del 2016. E non poteva mancare tra i protagonisti dell’ecosistema dell’innovazione e delle startup che abbiamo intervistato il direttore del centro, il prof. Giorgio Ventre
“Apple opened the first iOS Developer Academy. […] An initial class of 100 students are beginning their one-year training at a new center at the University of Frederico II in Naples”. Inizia così una nota ufficiale comparsa sul sito Apple lo scorso 6 ottobre. Dopo l’annuncio dell’allora premier Renzi, ha aperto i battenti il primo centro di sviluppo app dell’azienda di Cupertino in Europa, a Napoli. Una classe di 100 studenti, scelti tra i 4 mila, provenienti da tutta Europa, che si erano presentati alle selezioni a settembre.
La prima scuola di app Apple
Secondo i numeri diffusi da Apple, attualmente sull’App Store ci sono più di 2 milioni di app, che in Europa hanno creato più di 1 milione di opportunità di lavoro, dei quali circa 75 mila in Italia, con un fatturato per gli sviluppatori vicino ai 10 miliardi di dollari. Insomma, c’è un mercato, c’è un pubblico, ci sono opportunità di crescita. Per Apple, per i talenti italiani e per Napoli, la città sulla quale il colosso guidato da Tim Cook ha puntato e continuerà a puntare per i prossimi anni.
E’ stata una delle novità più importanti del 2016 e non poteva, quindi, mancare tra i protagonisti dell’ecosistema dell’innovazione e delle startup che abbiamo intervistato il direttore del Campus Apple partenopeo, il prof. Giorgio Ventre, direttore del Dipartimento di Ingegneria elettrica e delle Tecnologie dell’informazione dell’Università Federico II.
Perché Apple ha scelto Napoli
Professore, per te, per l’ecosistema campano dell’innovazione, certamente è stato un anno importante, con l’apertura del primo centro Apple in Italia. Perché Cook ha scelto Napoli?
«Le motivazioni credo siano molteplici. Innanzitutto c’è stato il supporto del Governo che ha convinto Apple a considerare l’Italia per questa loro iniziativa. La scelta specifica di Napoli credo sia legata al fatto che tra le città del Sud è quella con l’ecosistema digitale più forte, sia in termini di formazione che di produzione, e quindi più in grado di garantire quei numeri che una iniziativa di questo genere ha bisogno».
Quali sono i progetti/app più interessanti sviluppati nel vostro Campus?
«I ragazzi hanno appena concluso la prima app delle tre che svilupperanno nel corso del percorso di formazione. Tutte sono di grande livello tecnico ed alcune hanno anche un fortissimo appeal in termini di potenziale mercato. Tra quelle che mi sono piaciute di più vi sono quelle in ambito educativo, o quelle legate al turismo ed ai beni culturali».
La grande impresa dovrebbe occuparsi di startup
Com’è stato il 2016 delle startup italiane, secondo il tuo osservatorio?
«Credo che sia stato forse l’anno nel quale dall’entusiasmo per la novità si è passati alla analisi di un fenomeno oramai assestato e con grandi potenzialità. L’ingresso di investitori istituzionali, così come alcune acquisizioni vanno interpretati in questa direzione. Manca ancora l’attenzione da parte della Grande Impresa, che potrebbe diventare un catalizzatore davvero formidabile».
Cos’è cambiato di più, non solo a livello di mercato ma anche a livello di “sensibilità” nei confronti dei temi dell’innovazione, rispetto agli scorsi anni?
«In primo luogo, il fatto che l’innovazione digitale sia entrata prepotentemente nella politica del Governo è decisamente un segnale di una nuova sensibilità a livello di Sistema Paese. Dai fondi per la banda ultra larga, al lancio del Piano Nazionale Scuola Digitale, all’iniziativa su Industria 4.0 siamo di fronte a veri e proprie iniziative strategiche che intendono agire su tutti i livelli: dalle infrastrutture, alla formazione alla politica industriale».
In cosa l’innovazione italiana può ancora fare la differenza?
«Rimango convinto che l’approccio italiano all’innovazione, fatto di grandi competenze ma anche di grande attenzione alle esigenze del mercato, possa risultare vincente. Specialmente in quei settori dove la qualità è decisamente più importante della quantità. Parlo della robotica, dell’Internet delle Cose, della cyber security, dei nuovi media».
Le sfide per il 2017 (a partire dai dati)
Quali sono i trend del 2017 per l’ecosistema dell’innovazione?
«Oltre a quello della sicurezza, che rimarrà per lungo tempo un filone destinato a crescere di importanza, vedo aumentare l’attenzione sui sistemi “intelligenti”, in grado di semplificare l’interazione uomo macchina a tutti i livelli».
Siamo ormai pienamente nell’era di internet delle cose. Ogni sensore IoT raccoglie quotidianamente dati: dai nostri smartphone, agli orologi, alle auto, alle case, e tutto ciò, in scala, avviene anche nella grande produzione e distribuzione, tant’è che proprio le imprese, anche in Italia, hanno oggi un’enorme mole di dati a propria disposizione. Possono nascere o sono già nati nuovi modelli di business?
«Possono nascere ma deve rendersene conto per primi chi questi dati li produce. In primo luogo i grandi gestori di servizi per l’utenza. Ma anche la Pubblica Amministrazione, che ha in mano un enorme patrimonio di dati che potrebbe davvero incoraggiare la nascita di nuove imprese ma che invece preferisce tenerseli ben stretti per motivi spesso oscuri».
La combinazione tra raccolta dei dati (IoT), analisi (big data), robotica (automazione) e intelligenza artificiale (machine learning) creerà più occupazione, o, come dicono alcuni di“disoccupazione tecnologica”?
«Diverse fonti dicono che l’innovazione non distrugge l’occupazione ma la trasforma. Non possiamo però ignorare il problema sociale che porterà la sparizione di alcuni lavori e dovremo quindi imparare a vivere sempre di più in una Società dove si cambierà lavoro più spesso e si dovranno impararne di nuovi. Dobbiamo quindi immaginare nuove forme di accompagnamento e di sostegno alla disoccupazione e alla ricollocazione professionale».
Aldo V. Pecora
@aldopecora