Attività azzerate per il lockdown. “Ma le fatture arrivano lo stesso senza possibilità di dilazioni” lamentano gi utenti
Il vento era cambiato da tempo, ma la pandemia rischia di aggravare la crisi di una delle stelle più brillanti della sharing economy. WeWork, gigante statunitense degli spazi condivisi, si trova nell’occhio del ciclone. Ma questa volta a rischio non ci sono solo i conti.
Dopo l’IPO fallita a settembre, con conseguenti dimissioni forzate del ceo Alan Neumann e piano di salvataggio, il problema, adesso, è la quarantena. Sempre più spesso i clienti chiedono dilazioni e provano a terminare in anticipo i contratti di affitto delle loro scrivanie, provati dal lockdown che ha azzerato le attività economiche e impedito di frequentare fisicamente gli spazi. Ma di fronte alle richieste di clemenza, lamentano alcuni, WeWork si sarebbe dimostrata insensibile. I clienti inferociti hanno raccolto le proprie storie su un sito dall’evocativo nome Wefeedback.
“È spregiudicato che WeWork ci faccia pagare [le postazioni] al Warner Center” lamenta Jill Letendre, imprenditrice californiana. “Il coworking ha aperto il 16 marzo, ma dopo soli tre giorni il governatore ha emanato l’ordinanza che ci imponeva di restare a casa. La società ci ha chiesto ugualmente 5mila dollari anche se non abbiamo mai messo piede nell’edificio” accusa la donna.
“WeWork continua a emettere fatture regolarmente, e ha persino minacciato di trascinarci in tribunale e trattenere il deposito se non paghiamo la membership per intero – attacca Rodolfo Vengoechea, dalla Colombia – Ma il nostro staff non può usare l’ufficio perché siamo in quarantena da marzo per decisione del governo”.
Non sempre si opta per la linea dura. In Perù la politica della compagnia sembra meno radicale. “Ci hanno fatto alcune concessioni – racconta Luis Rafael Zegarra Leon – Non emetteranno fattura per il mese di aprile, mentre a maggio pagheremo il 50%”.
Il cortocircuito nasce dal fatto che il colosso statunitense non possiede buona parte degli edifici in cui opera, e quindi paga a propria volta un canone. La società ha tenuto formalmente aperti i propri spazi durante il lockdown, almeno nei paesi e nelle regioni dove i governi non hanno imposto una chiusura totale.
“Stiamo interagendo individualmente con i singoli membri della nostra community per capire il modo migliore per supportarli in questo periodo” ha commentato a StartupItalia da Londra un portavoce di WeWork, evitando di scendere nei particolari.
In rete circolano una petizione e un video di denuncia girato con gli stessi toni patinati che caratterizzano la comunicazione della compagnia. “Se le nostre attività non sopravviveranno alla crisi – chiosa Lisa, copywriter freelance – neanche il vostro business sopravviverà”.
Il problema, come nota il Commercial Observer, è di reputazione. “Per anni, il gigante del coworking si è presentato alle piccole imprese non solamente come uno spazio di lavoro fuori casa, ma come il modo per unirsi a una community di società caratterizzate dalla stessa mentalità. Adesso, proprio quella community ha cominciato a rivoltarsi contro a WeWork, spinta dalla frustrazione per il modo in cui l’azienda ha affrontato la pandemia”.