Da Verona a Roma, passando per Genova, intervista ai founder di tre aziende che hanno fatto leva anche sulla proprietà intellettuale
Una opera nel settore agritech, un’altra in quello biotech, la terza nell’ambito edtech. In comune, condividono la volontà di puntare su un capitale tanto immateriale quanto strategico: la proprietà intellettuale delle loro invenzioni. Sono le tre aziende raggiunte da StartupItalia proprio in occasione della Giornata mondiale della proprietà intellettuale, che si celebra oggi, 26 aprile. Tutte e tre le realtà aziendali rientrano nella top 100 delle migliori startup del 2021, che abbiamo pubblicato alla fine dello scorso anno.
A Verona per conoscere le farm del futuro
Partiamo da Verona con ONO Exponential Farming, startup innovativa fondata nel 2018 da Thomas Ambrosi e altri due soci, Stefano Sandrini e Giorgio Morandin. Ambrosi, 50 anni appena compiuti, ci racconta che in realtà “la sua idea si era già formata nel 2015, quando visitai l’Expo di Milano dove vidi per la prima volta una vertical farm, quella presentata da ENEA. Davanti, mi si aprì un nuovo mondo”.
Ad oggi, ONO ha realizzato 6 brevetti, depositati in tutto il mondo, che coprono diversi aspetti: dalla modalità e scalabilità dell’infrastruttura ai sistemi di dissipazione del calore prodotto dalle luci, dai dispositivi di gestione dei liquidi ai sistemi di controllo della gestione delle coltivazioni. “Questi brevetti hanno permesso a ONO di essere riconosciuto da molte istituzioni a livello globale come tecnologia disruptive: nel 2020, Fast Company ha definito ONO Exponential Farming come una delle ‘Tecnologie in grado di cambiare il Mondo’”, sottolinea Ambrosi.
Ma in cosa consiste il sistema ONO? “Abbiamo sviluppato una tecnologia unica, completamente automatizzata e modulare, Seed-to-Pack (dal seme alla busta), per la coltivazione intensiva di vegetali, alghe o insetti. Ciò è reso possibile grazie all’uso di robotica e algoritmi di intelligenza artificiale che guidano le attività operative della farm senza l’intervento diretto dell’uomo”, spiega il founder. “La farm di ONO permette di fatto a chiunque di coltivare qualsiasi cosa, ovunque nel mondo e in modo sostenibile, agile e redditizio. La nostra visione è quella di costruire la più grande rete di aziende agricole connesse, efficienti e redditizie a livello globale”.
Thomas Ambrosi ha creato 5 aziende e registrato 24 brevetti. Insomma, un imprenditore e inventore seriale. Secondo lui, oggi la protezione brevettuale è ben più importante di quanto non fosse in passato, poiché grazie a questa è possibile finanziare il notevole lavoro di ricerca. “È evidente che l’unica possibilità di valorizzazione di questo patrimonio intellettuale può avvenire solo attraverso il brevetto. La produzione di brevetti è un indice di vitalità dell’impresa nella continua ricerca di soluzioni che possano cambiare in meglio lo status quo. Brevettare significa porre le basi per creare imprese a prova di futuro e di generare entusiasmo”.
A proposito di futuro, il prossimo brevetto? “Stiamo lavorando su alcuni elementi che permettano, attraverso le nostre farm, di poter coltivare fragole in modo costante, riducendo i tempi necessari alla crescita per incrementare produttività e profittabilità nella loro produzione e commercializzazione”.
Intanto, lo scorso anno la startup veronese ha chiuso un round di finanziamento da oltre 2 milioni di euro. I soldi raccolti sono serviti per completare lo sviluppo industriale delle farm, racconta Ambrosi. “Questo è avvenuto grazie all’inserimento di giovani talenti con background ingegneristico, biotecnologico e agronomico nel nostro team. Siamo riusciti anche a riportare in Italia un ricercatore di Berkeley che oggi si interfaccia con quelli dell’Università di Verona sui nuovi cantieri di sviluppo per le applicazioni nel mondo delle microalghe e nell’allevamento di insetti”.
Oggi la squadra di ONO Exponential Farming è costituita da 25 persone e l’obiettivo è quello di raddoppiare l’organico per permettere lo scale-up dell’impresa entro la fine di quest’anno.
Dall’agritech al biotech, passando per Genova
Il nostro viaggio prosegue e fa tappa in Liguria, per conoscere la storia di React4Life, PMI innovativa genovese che lavora sulla tecnologia dell’organ-on-chip, e lo scorso ottobre si è aggiudicata uno dei premi ‘Innovation radar 2021’, assegnati dalla Commissione europea alle innovazioni più promettenti emerse da progetti di ricerca e innovazione finanziati dall’Ue.
L’azienda è stata fondata alla fine del 2016 da un team di scienziati e promotori di tecnologie rivoluzionarie, tra cui i due soci principali, Maurizio Aiello e Silvia Scaglione. Tra i due, la scintilla scientifico-imprenditoriale è scoccata al Consiglio Nazionale delle Ricerche: “Silvia è una ricercatrice del CNR con una significativa esperienza scientifica internazionale in ingegneria tissutale, biomateriali e bioreattori. Io al CNR mi occupavo di cybersecurity”, ci racconta Aiello, 51 anni, ceo di React4Life. “Quando ci siamo incontrati, ho capito subito che c’era la possibilità molto forte di portare i risultati della sua ricerca sul mercato. È nata da qui la decisione di fondare l’azienda”.
React4Life ha registrato 3 brevetti, “ma sono solo tre perché i brevetti costano, altrimenti ne faremmo una fucina”, ci tiene a sottolineare Aiello. Tuttavia, la punta di diamante è rappresentata da MIVO® – Multi In Vitro Organ, la tecnologia organ-on-chip da cui è iniziato tutto. In pratica, nella sua configurazione più semplice, questa consiste in una camera di coltura all’interno della quale è possibile coltivare anche tessuti tridimensionali, di qualsiasi tipo: “Potrebbe essere uno sferoide, un tumoroide – esemplifica Aiello – ma anche un tessuto preso da paziente, come una biopsia tumorale”. A questa camera di coltura è associato un sistema di pompaggio che riproduce la circolazione fluidica come avviene nel corpo, basti pensare alla circolazione sanguigna. “Quindi, di fatto, noi ricostruiamo in laboratorio dei piccoli organi umani perfettamente funzionanti”.
Lo scopo di questo tipo di attività è intuitivo, come ci spiega il founder: “Da una parte, consente di testare nuove molecole, nuovi farmaci e preparati, accelerando lo sviluppo di nuove terapie, anche in una prospettiva di medicina personalizzata; dall’altra, offre ai ricercatori degli strumenti sempre più innovativi e sofisticati per portare avanti le proprie ricerche”. Ad esempio, se uno scienziato sta studiando il morbo di Crohn, o la fibrosi cistica, tramite MIVO può riprodurre l’organo di interesse (intestino o polmone) al fine di testare nuove terapie. A ulteriore dimostrazione della flessibilità del sistema, utilizzando l’analogia con i mattoncini della Lego, Aiello ci spiega che è possibile andare a collegare anche due o più camere di coltura diverse tra loro, con la possibilità di creare un’enorme varietà di configurazioni, riflettendo la complessità del corpo umano. “Possiamo collegare, ad esempio, l’intestino con il fegato, per osservare come si distribuisce un farmaco; oppure possiamo creare una configurazione ad hoc per testare le immunoterapie sui tumori”.
Il mercato dell’organ-on-chip è in forte crescita, stimolato anche dalla spinta delle istituzioni regolatorie verso un uso sempre più massiccio di questa tecnologia, spiega l’imprenditore. In questo contesto, il valore di un’azienda non si costruisce solo con i brevetti, ma anche e soprattutto con la credibilità scientifica: “Noi, ad esempio, abbiamo già pubblicato diversi paper su riviste internazionali peer-reviewed, senza contare i tanti riconoscimenti ottenuti fino adesso”. Tuttavia, a fronte di questo crescente interesse, secondo l’imprenditore, il brevetto rappresenta un investimento per il futuro, per quello che accadrà tra quattro o cinque anni.
E, allora, anche a questa azienda, prevalentemente al femminile – le donne rappresentano il 70% della forza lavoro – chiediamo quale sarà il prossimo brevetto: “Noi abbiamo due grandi mercati: quello delle case farmaceutiche e quello relativo al mondo della ricerca. Riguardo a quest’ultimo, il nostro primo brevetto riesce a rispondere già bene a tutte le esigenze. Rispetto al mondo pharma, invece, stiamo lavorando a un sistema ancora più aderente ai suoi bisogni, ovvero a una derivazione del MIVO®, per un utilizzo più automatizzato”.
A Roma per imparare a difendersi dagli attacchi hacker
Il nostro viaggio tra le aziende che hanno puntato (anche) sulla proprietà intellettuale termina nel Lazio, per conoscere Cyber Guru, startup innovativa romana che si occupa di tematiche relative alla cybersecurity nel settore edtech, e che lo scorso anno ha chiuso un round da 3,6 milioni di euro.
Fondata nel 2017, Cyber Guru ha registrato alla SIAE due software: Cyber Guru Awareness e Cyber Guru Phishing. “La prima soluzione è una piattaforma software residente sul cloud, che si compone di software scritto da noi e di elementi formativi – come, ad esempio, video, lezioni e test – altrettanto prodotti da noi”, ci spiega Gianni Baroni, 62 anni, ceo e founder di Cyber Guru, anche lui già con un’azienda alle spalle. Cyber Guru Awareness, in pratica, è una piattaforma di e-learning sulla cyber security awareness rivolta a utenti finali non esperti, con lo scopo di sviluppare un elevato grado di consapevolezza nell’interazione con le tecnologie digitali e con il web. “Mentre nel mondo offline sappiamo che girare di notte con il portafoglio in bella vista, in un quartiere malfamato, è un comportamento da evitare, nel mondo digitale questa è la norma”, chiarisce Baroni. “Il nostro obiettivo è fare in modo che l’utente, nella maggior parte dei casi assolutamente sprovveduto e indifeso, sviluppi una coscienza tale per cui risulti meno soggetto agli attacchi degli hacker”.
Cyber Guru Phishing, invece, è un sistema automatizzato per l’allenamento anti-fishing, sempre rivolto a utenti finali non esperti. “È un sistema basato sull’intelligenza artificiale, che sfida ogni singolo utente con simulazioni di attacchi phishing, allenandoli a riconoscere le minacce nascoste in mail e messaggi”, spiega l’imprenditore. Una sorta di personal trainer digitale, che nel corso del tempo alza il livello della sfida in base alle capacità dimostrate da ciascun utente: così, quelli più esperti riceveranno mail più difficili da riconoscere come phishing; al contrario, gli altri riceveranno delle mail più semplici da identificare. Insomma, ogni singolo utente è sottoposto a un programma di formazione continua, commisurato alle sue reali capacità di reazione e di identificazione del rischio cyber, che tiene conto anche dell’evoluzione costante delle tecniche di attacco.
A queste due soluzioni, poi si è aggiunto Cyber Guru Channel, “di fatto una serie tv in stile Netflix con micro episodi, sempre sotto i 6 minuti, dove il protagonista di ogni episodio commette un errore in apparenza banale, che però gli provoca un problema non indifferente, di tipo lavorativo oppure personale”, continua Baroni. “In sostanza, quindi, proponiamo tre soluzioni, offrendo diversi tipi di formazione: cognitiva, grazie a Cyber Guru Awareness; esperienziale, attraverso Cyber Guru Phishing; e di tipo induttivo con Cyber Guru Channel, esponendo gli spettatori a delle situazioni reali che li spingono a immedesimarsi nella ‘vittima di turno’, per imparare a interagire in maniera corretta con le tecnologie e i dispositivi digitali”. Tutte e tre le soluzioni sono state concepite per lavorare in sinergia, in modo da massimizzare l’effetto formativo, ci tiene a sottolineare Baroni. Non solo: “Le nostre soluzioni si basano sulle più avanzate tecniche di apprendimento multimediale, in modo da trattenere l’utente sulla piattaforma e favorirne un aumento dell’engagement nel corso del tempo”.
Con i soldi raccolti, Cyber Guru è passata in un anno da 10 a 38 persone, ma l’obiettivo è quello di arrivare a 60 entro la fine dell’anno. Tra le priorità, il miglioramento della piattaforma e l’espansione commerciale, ed “è molto probabile che nel momento in cui avremo finito la nuova versione di Cyber Guru Awareness, che avrà al suo interno un motore di intelligenza artificiale basato sul machine learning, a quel punto cercheremo di avere un brevetto”. A questo riguardo, Baroni ha le idee chiare: “La proprietà intellettuale, come creazione di valore, non può essere disgiunta dalla capacità di saperlo vendere: si possono avere tutte le forze commerciali che vogliamo, ma se non abbiamo una buona idea e non abbiamo un valore da portare, non si va molto lontani”.