Il modello di agricoltura intensiva dello scorso secolo ha impoverito i terreni agricoli. Ora molti Stati e aziende provano ad invertire la rotta promuovendo pratiche di Agricoltura rigenerativa. Ne parliamo con Giuseppe Corti del Crea, che avvisa: “Non esistono soluzioni semplicistiche ad un problema così complesso”
“Non è una rivoluzione e neanche una semplice moda”. Secondo Giuseppe Corti, direttore Agricoltura e Ambiente del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi in economia agraria) per definire l’agricoltura rigenerativa è necessario trovare una nozione intermedia. Proviamo a cominciare da quello che, comunemente, si intende: una serie di pratiche intese a invertire l’impoverimento del suolo causato da procedure intensive, promuoverne la conservazione dall’erosione e mantenerne la biodiversità.
Tra le tecniche usate, piantare colture di copertura per proteggere il suolo e contribuire ad aggiungere biomassa, che può aumentare la presenza di materia organica nel terreno e, quindi, aumentare il sequestro del carbonio nel suolo; utilizzare fertilizzanti organici per concorrere alla fertilità del suolo, essenziale per una buona salute del terreno; fare un uso maggiore dell’agroforestazione e della consociazione in modo da contribuire alla tutela della biodiversità; sostituire le piante esistenti con varietà resistenti alle malattie e ai cambiamenti climatici per aiutare a ringiovanire gli appezzamenti e ad aumentare la resa per gli agricoltori.
Corti, a colloquio con StartupItalia, accetta di spiegare meglio i confini della propria posizione. Partendo da un caposaldo: la conservazione della materia organica. Cioè “quel polimero organico che esiste solo nel suolo e deriva dalla degradazione dei residui delle colture o dei cascami. Ogni tipologia di terreno – osserva – ha la propria”.
Il fondamento dell’Agricoltura rigenerativa è la conservazione della materia organica nel suolo
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L’agricoltura aggressiva ha rovinato il suolo
Lo studioso è chiaro: la ricerca di rese sempre maggiori è la causa principale di un deterioramento del suolo che ha raggiunto, in alcune aree, soglie critiche, da cui è difficile tornare indietro. Almeno, osserva Corti, su una scala compatibile con l’esistenza umana: servono centinaia, migliaia di anni. “Bisognava intervenire negli anni Settanta e Ottanta. Quando si faceva tutt’altro” afferma.
Ma come è stato possibile arrivare a questo punto? “Parliamo del caso dell’Italia: nei terreni in collina e in pendenza tipici della Penisola sono state introdotte tecniche di grande potenza impiegate in territori molto diversi dal nostro come il Wyoming o l’Ucraina. Larghissimo impiego di concimi azotati, lavorazioni profondissime fino a 50 centimetri, finanziamenti per l’acquisto di trattori sempre più mastodontici e pesanti che hanno dato luogo a compattamenti” elenca. La colpa, secondo Corti, non si può attribuire agli agricoltori, che non erano sufficientemente informati. “Dovevano essere le organizzazioni di settore a fornire le nozioni corrette” afferma. Probabilmente, aggiungiamo noi, anche il ministero.
Così, molti territori del nostro Paese versano in uno stato di declino praticamente irreversibile. “Penso alle aree preappenniniche, all’Abruzzo, alle Marche, al Molise, zone collinari con elevata pendenza e tessiture limose: qui le condizioni del terreno sono peggiorate al punto che di materia organica non ne è rimasta molta. Ce la siamo bruciata, letteralmente”. Del resto, “fino agli anni Duemila si credeva, senza conoscenze scientifiche complesse a supporto, che fosse possibile registrare un incremento della materia organica su suolo impoverito grazie a tecniche di reintroduzione”. Non era così. “Servono secoli”.
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Non tutto è perduto?
Da pragmatico conoscitore della scienza e del lavoro nei campi, Corti è consapevole delle difficoltà di bilanciare tutela del suolo e rese, da cui deriva la sostenibilità economica del settore agricolo. La sua parola d’ordine: non prendersela con chi coltiva la terra. E rifuggire, al contempo, da ricette troppo semplici: “Solo poche pratiche di agricoltura rigenerativa sono sostenibili su scala industriale – annota – Chi pensa agli orti domestici sbaglia: sono molto differenti. Il tempo di chi li lavora non è una risorsa scarsa, il costo unitario alto della produzione è compensato dal piacere del fai da te. Ma per chi con la terra ci vive il discorso è diverso”.
il punto peggiore per il suolo italiano lo abbiamo già toccato negli anni Novanta. Da allora è già stato fatto un grandissimo lavoro di consapevolezza e informazione
Lo studioso naviga in una zona di mezzo tra la delusione che deriva dalla constatazione dei gravi danni prodotti nel corso di decenni e la necessaria speranza: “Il massimalismo non serve – riprende: il punto peggiore per il suolo italiano lo abbiamo già toccato negli anni Novanta. Da allora è già stato fatto un grandissimo lavoro di consapevolezza e informazione”. Ma è necessario proseguire nel cammino, per tutelare quel che resta e gettare le basi per il futuro. Come?
“Non c’è una ricetta valida per tutti i territori: servono soluzioni quasi locali. La Sicilia non è uguale alle Marche, né dal punto di vista geologico né da quello climatico”. “E poi – aggiunge – dobbiamo pensare a introdurre colture nuove, non limitarci a grano, granturco e barbabietola, ma pensare a piante diverse e innovative per le nostre zone; ne esistono in grado di adattarsi ai nostri suoli difficili, penso ad esempio alla quinoa. Ma ci sono anche cereali come il teff, che non contiene glutine e stiamo testando al Crea”.
L’imperativo è non abbandonare i suoli difficili: “Dobbiamo riconquistare le terre marginali abbandonate da mezzo secolo, due milioni e mezzo di ettari persi in cinquant’anni. Non c’è da meravigliarsi che siamo così esposti a crisi come quella del grano ucraino: non eravamo autosufficienti neanche prima, ma la quota di importazioni, un tempo, era decisamente minore”.
La pianta di quinoa – Fonte foto: Pixabay
Agricoltura rigenerativa, il ruolo delle aziende
Il problema, naturalmente, non riguarda solo l’Italia. Il cosiddetto Global South, cioè i Paesi poveri o in via di sviluppo, sono stati impoveriti nel corso degli anni dalle monocolture e dallo sfruttamento intensivo dei terreni. Gli agricoltori locali, peraltro, sono quasi ovunque rimasti a cavallo della soglia di sussistenza, in molti casi sotto. Sull’onda della sempre maggiore consapevolezza etica e ambientale di questi anni e delle pressioni dei consumatori, anche le grandi multinazionali hanno cominciato a prendere coscienza della necessità di modificare il proprio approccio.
La svizzera Nestlè, ad esempio, ha recentemente annunciato che lavorerà con i coltivatori di caffè per testare, apprendere e valutare l’efficacia delle pratiche di agricoltura rigenerativa per il proprio marchio Nescafè. Ciò avverrà – spiega un portavoce a StartupItalia -con un focus su sette territori chiave, da cui il brand si approvvigiona per il 90% del caffè: Brasile, Vietnam, Messico, Colombia, Costa d’Avorio, Indonesia e Honduras.
L’azienda – prosegue il portavoce – si impegna a sostenere gli agricoltori che si assumono i rischi e i costi associati al passaggio all’agricoltura rigenerativa e fornirà programmi che mirano a migliorarne il reddito a seguito di tale transizione. “Attraverso questo progetto, insieme ai coltivatori di caffè, testeremo e identificheremo il miglior approccio in ogni Paese. Ciò potrebbe anche includere misure come incentivi in denaro condizionati all’adozione di pratiche di agricoltura rigenerativa, protezione del reddito tramite l’assicurazione contro gli agenti atmosferici, maggiore accesso alle linee di credito per gli agricoltori”.