Ricercate soprattutto per le loro proprietà nutrizionali, le microalghe potrebbero diventare un importante tassello all’interno di una dieta sana e sostenibile che concede maggiore spazio ad alimenti di origine vegetale. La specie algale più diffusa sul mercato rimane la spirulina. E intanto si studia come aumentarne la produttività grazie all’aiuto delle biotecnologie
Si fa presto a dire alghe. Anzi, microalghe. Tutti abbiamo sentito parlare almeno una volta della spirulina, l’alga dalle mille virtù, il nettare degli dei secondo gli Aztechi. La sua fama di superfood al giorno d’oggi è legata alle sue proprietà antiossidanti e antinfiammatorie e all’elevato contenuto proteico, oltre che di vitamine e di sali minerali. Tant’è che diverse aziende propongono le compresse di spirulina come integratori alimentari per migliorare il benessere del nostro organismo.
La spirulina in realtà è un cianobatterio, e diciamo subito che è in buona compagnia. Quando infatti si parla di microalghe, ci si riferisce a un settore estremamente vario, con un enorme potenziale ancora da esprimere.
Questi organismi – che possono essere unicellulari o pluricellulari, di acqua dolce o marini – trovano poi svariate applicazioni: dalla cosmetica alla nutraceutica per l’appunto, dalla produzione di mangimi per pesci negli impianti di acquacoltura allo sviluppo di biocarburanti di nuova generazione.
Le microalghe hanno risvegliato anche l’interesse dell’industria alimentare, soprattutto da quando è partita la “caccia” alle proteine alternative. La produzione di carne e degli altri alimenti di origine animale a livello globale ha un considerevole impatto sull’ambiente, sia in termini di emissioni di gas serra (anidride carbonica, metano e protossido d’azoto) sia per il legame con la deforestazione in Amazzonia.
Ridurne il consumo è quindi considerato uno degli strumenti di mitigazione del cambiamento climatico a nostra disposizione, come hanno anche ribadito gli scienziati dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), ovvero il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici.
Ecco allora che in questo contesto il contributo delle microalghe, che vengono fatte rientrare nella categoria dei novel food, può diventare rilevante. Non tanto con l’obiettivo di sostituirsi completamente ad alcuni cibi, quanto nell’ottica di fornire un’integrazione a una dieta bilanciata.
Spirulina e le altre: un mercato in espansione
Sulla questione microalghe l’Europa ha deciso di premere sull’acceleratore. Per favorire gli investimenti e lo sviluppo di un’industria di settore, la Commissione Europea sta per lanciare quest’estate la piattaforma EU4Algae: uno spazio in cui far convergere produttori, università, centri di ricerca e stakeholder e che farà anche da hub informativo unico su bandi e progetti.
Attualmente, secondo le stime elaborate da StrategyR, il settore delle microalghe a livello globale ha un valore che si attesta intorno al miliardo di dollari. Il punto è che ci sono notevoli margini di crescita. Nel 2026 il settore potrebbe infatti valere più di 1,3 miliardi dollari, con un tasso annuo di crescita composto del 5,3%.
Leggendo sempre il report pubblicato recentemente da StrategyR, vediamo che al momento gli Stati Uniti da soli occupano quasi il 30% (pari a circa 300 milioni di dollari) del mercato globale. Ma la Cina è già partita all’inseguimento: si prevede che per il 2026 il mercato cinese possa raggiungere un valore di oltre 253 milioni di dollari, con una crescita annua del 6,5%.
E in Italia qual è la situazione? La domanda di biomassa algale essiccata si aggira intorno alle 200 tonnellate. Tuttavia, di questa quantità la produzione nazionale (dedicata quasi interamente a spirulina) copre meno del 13%. La parte restante la dobbiamo importare. Insomma, le opportunità di mercato ci sarebbero, ma la produzione all’interno dei nostri confini rimane ancora piuttosto limitata.
Torniamo però a ragionare su scala globale. Nella classifica delle microalghe in commercio, spirulina fa la parte del leone (49%). A seguire troviamo un’alga verde unicellulare, la chlorella (29,4%), che è stata autorizzata per uso alimentare sia negli Stati Uniti sia in Unione Europea e che viene anch’essa venduta per lo più sotto forma di integratore alimentare.
Un’altra microalga utilizzata nella filiera agroalimentare è Haematoccocus pluvialis. “Si tratta di un’alga verde da cui si estrae l’astaxantina, una molecola di grande interesse per via del suo potere antiossidante”, spiega Matteo Ballottari, professore associato di Fisiologia vegetale presso il dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Verona. L’astaxantina trova largo impiego soprattutto nel settore dell’acquacoltura. Viene per esempio aggiunta ai mangimi destinati ai salmoni d’allevamento per dare alle loro carni la tipica colorazione arancio-rosa.
Generalmente viene somministrata ai pesci astaxantina di sintesi, perché ha dei costi di produzione più bassi. “Tuttavia, l’astaxantina naturale ha delle proprietà biologiche di gran lunga superiori rispetto a quella sintetica. Diversi studi scientifici hanno dimostrato per esempio che l’uso di astaxantina naturale, oltre a garantire l’effetto di pigmentazione desiderato, ha effetti positivi sulla massa corporea dei pesci”, prosegue Ballottari
Non è finita qui. “Tra le specie su cui ci stiamo concentrando ci sono anche alcune varietà di Nannochloropsis e la diatomea Phaeodactylum tricornutum, che, a differenza di spirulina e chlorella, provengono da ambienti marini”, aggiunge Sarah D’Adamo, assistant professor presso la divisione Bioprocess Engineering dell’università di Wageningen (Paesi Bassi).
“Nannochloropsis è molto interessante per il contenuto di acidi grassi polinsaturi a catena lunga, in particolare acido eicosapentaenoico (chiamato più semplicemente Epa). Da Phaeodactylum si potrebbe ottenere invece un carotenoide come la fucoxantina”. I benefici di quest’ultima sostanza vegetale sono ancora da dimostrare scientificamente. Secondo alcuni studi preliminari, la fucoxantina avrebbe proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, oltre ad avere perfino la capacità di facilitare l’eliminazione del grasso corporeo.
“Al momento non abbiamo un superceppo che possiede tutte le caratteristiche desiderate”, commenta Ballottari. “Ma abbiamo diverse specie di microalghe, tra cui spirulina e chlorella, che hanno un contenuto proteico molto elevato (si parla del 60-70% rispetto alla biomassa complessiva) e con un profilo di amminoacidi essenziali adatto per l’alimentazione”.
“Le microalghe sono inoltre produttori primari di Omega3, acidi grassi essenziali che ritroviamo anche nei pesci che si nutrono di questi organismi. Produrre Omega3 estraendoli direttamente dalle microalghe consente di avere maggiori vantaggi in termini di sostenibilità”.
Ottenere di più dalle microalghe
Già, sostenibilità. La parola che oggi è sulla bocca di tutti. Ma come si lega al settore delle microalghe? La risposta sta in un processo biochimico che abbiamo tutti studiato a scuola: la fotosintesi. Per crescere le microalghe hanno infatti bisogno di pochi elementi essenziali, tra cui acqua, anidride carbonica e luce solare.
“Si potrebbero definire le microalghe come dei «lieviti verdi». Per certi versi sono simili. I lieviti però sono organismi eterotrofi, per cui dobbiamo fornire loro un substrato di crescita, che poi finisce per ossidarsi e rilasciare CO2. Negli impianti di produzione delle microalghe si utilizza invece la luce disponibile per assorbire CO2 dall’atmosfera, favorire l’accrescimento di biomassa algale e quindi ottenere biomolecole di interesse”, afferma il professor Ballottari.
“Per esempio, è possibile implementare dei processi industriali in cui a fianco di un impianto di biogas viene collocata una coltivazione di microalghe. Quest’ultime andrebbero a «mangiare» la CO2 prodotta”. In un’ottica di economia circolare, uno scarto industriale diventerebbe la fonte di nutrimento per le microalghe. Non una cattiva idea.
A questo punto è doveroso fare una piccola digressione. I metodi di coltivazione delle microalghe si dividono sostanzialmente in aperti e chiusi. Nel primo caso, parliamo di grandi vasche (il termine tecnico è open ponds), in cui le microalghe vengono tenute in movimento, generalmente tramite l’azione di pale oppure insufflando ad alta pressione aria arricchita con CO2. L’agitazione delle acque è necessaria per mantenere le microalghe in sospensione, fornendo ad ogni cellula un’esposizione uniforme alla luce.
“Sono impianti di basso costo, con volumi che possono essere importanti, e si sviluppano orizzontalmente per evitare fenomeni di ombreggiamento”, aggiunge Ballottari. “Per questo motivo in impianti del genere l’altezza della coltura non dovrebbe superare i 30-40 centimetri”.
Tra i sistemi chiusi ci sono invece i fotobioreattori, che sono impianti più tecnologicamente avanzati e quindi più costosi. Sfruttando la verticalità dell’impianto, si ottiene una maggiore superficie di illuminazione e quindi una massimizzazione della resa produttiva.
“A differenza delle colture agricole, l’attività fotosintetica delle microalghe non richiede terreni fertili, ma può essere sfruttata pressoché in ogni parte del mondo”, sottolinea ancora Ballottari. “Il sistema di coltivazione delle microalghe è sostanzialmente artificiale, e di conseguenza possiamo controllare le condizioni di crescita. Basti pensare che uno degli impianti più grandi del mondo è in Israele, e che tra i maggiori produttori di astaxantina c’è un’azienda islandese”.
Da tempo l’industria si sta interrogando su come incrementare la produttività delle microalghe. Una delle nuove frontiere in campo biotecnologico è senza dubbio il miglioramento genetico. In particolare, il ricorso a una tecnica di genome editing come Crispr/Cas9, il cosiddetto “taglia e cuci” del Dna che è valso il Nobel per la chimica nel 2020 alle ricercatrici Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna.
“Con l’aiuto di Crispr/Cas9, per esempio, si possono modificare dei percorsi metabolici all’interno della cellula per accelerare la produzione di determinati composti o biomolecole”, sostiene Sarah D’Adamo. “Un altro approccio è quello di migliorare direttamente la crescita cellulare delle microalghe, intervenendo sui geni che codificano gli enzimi necessari per la fotosintesi”.
“Qui in Europa siamo all’avanguardia. Il problema è che manca un’indicazione chiara dal punto di vista normativo”, incalza Ballottari. “I ceppi di microalghe su cui interveniamo con Crispr/Cas9 sono da considerare Ogm oppure no?”.
Il timore – come avviene sempre quando l’innovazione tecnologica corre più veloce della politica – è che si possano creare delle situazioni di incertezza che non permettono a un settore di esprimere tutte le sue potenzialità.
“Noi scontiamo un forte gap tra le applicazioni attualmente disponibili sul mercato e i risultati ottenuti in diversi centri di ricerca. Oggi abbiamo una decina di specie approvate per l’utilizzo nell’alimentazione umana a livello europeo rispetto a un numero molto più elevato di specie con una dimostrata attività benefica per l’organismo umano”, conclude Ballottari.
“Chlamydomonas reinhardtii è un’alga unicellulare largamente impiegata nei laboratori di biologia come organismo modello per gli studi sulla genetica e non solo. Non si può consumare in Europa, ma è stata riconosciuta come GRAS (Generally Regarded As Safe) da parte dell’Fda (Food and Drug Administration, l’ente federale americano che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ndr). E questo è soltanto uno dei molti esempi che si potrebbero fare”.