Il nostro longform domenicale ospita Nicola Palmarini, direttore del NICA di Newcastle, da decenni impegnato a studiare vecchiaia e longevità. Nell’intervista scardina gli stereotipi più diffusi. “Abbiamo un’idea sbagliata di chi sono i giovani e gli anziani. Serve un lavoro di fusione generazionale, un’operazione di comprensione dell’altro che non è impossibile”
Invecchiare bene è un’arte su cui filosofi e autori si sono cimentati da sempre. Tra i primi, Cicerone con il De senectute (La vecchiaia), una confutazione della decadenza fisica e mentale. Eppure, molto resta ancora da comprendere: come evitare che la pensione si riduca a un lento declino, e come evitare che i bilanci statali siano sopraffatti dai costi del welfare legati alle patologie croniche. La durata media della vita ha subito un incremento rapido negli ultimi cinquant’anni nel mondo occidentale, ma i sistemi sociali sono rimasti pressoché immutati. E la tecnologia a volte paradossalmente rappresenta un problema: “ansia da aggiornamento“, la chiama Nicola Palmarini, cinquantotto anni, direttore del NICA (National Innovation Center for Ageing) di Newcastle, in Inghilterra, un centro dedicato a individuare opportunità – anche di mercato – per la terza età sfruttando gli strumenti offerti dalla tecnologia. Tra le considerazioni più interessanti del manifesto programmatico, la spinta a diventare “buoni antenati”, abbandonando visioni (e politiche) di breve respiro, e la considerazione – mai banale – che la tecnologia deve costuituire un facilitatore delle relazioni umane, piuttosto che un sostituto. Sono due miliardi gli over 50 nel mondo, secondo il NICA: Palmarini, che gravita attorno al tema dal 2008, ha analizzato sfaccettature e stereotipi di vecchiaia e longevità.
Cosa fate al NICA, Palmarini? E da dove ha cominciato?
In sostanza, cerchiamo di capire quali innovazioni portare al mercato per vivere felici l’invecchiamento. Ho cominciato a occuparmi di vecchiaia e longevità nel 2008: allora lavoravo all’IBM, e abbiamo combinato le tecnologie dell’epoca, quelle mobile, i primi analytics, al fine di aiutare i servizi sociali di Bolzano a capire come supportare meglio le persone prese in carico. Già allora si intuiva che ci sarebbe stata la necessità di un numero maggiore di caregiver. E già ai tempi si era capito che alcune soluzioni, ad esempio quelle basate sull’Internet of Things, avrebbero potuto aiutarci a comprendere meglio quali sono i bisogni e i fattori di rischio, fisici e psicologici, per la terza età. Ad esempio, la solitudine. Il progetto a suo modo fece scuola, perché allora non c’erano molte iniziative che avevano considerato una serie di aspetti come carenza di banda, connettività, sistemi ridondanti, nella prospettiva di migliorare l’invecchiamento. Quell’esperienza mi ha permesso di capire molto, anche da un punto di vista non meramente tecnico: linguaggi, visioni, paure, lo stigma.
Poi?
Qualche anno dopo, nel 2014, l’IBM mi ha chiesto di andare negli Stati Uniti, a Boston, per dirigere la divisione Healthy Ageing. Un tema sul quale non aveva esperienza, e che voleva esplorare. Dopo un anno e mezzo, mi ha chiamato il governo britannico per diventare direttore del NICA. Era stato fondato quattro anni prima, ma non c’era ancora nulla a parte l’edificio.
Se volessimo fare una sintesi: che cosa ha compreso sulla vecchiaia, sia a livello di conoscenze generali sia di trasferimento tecnologico?
Abbiamo imparato moltissimo. E, me lo lasci dire, abbiamo soprattutto compreso quanto ancora ci manca, le cose, cioè, che non sappiamo. Sembra banale, ma in questo settore non lo è. La longevità è un tema orizzontale, e al NICA colleghiamo flussi di ricerca verticali che raramente vengono letti insieme per capire dove risiedono le opportunità di quella che tecnicamente viene definita l’”economia della longevità“.
Ad esempio?
Esistono molte soluzioni ai problemi, ma poche per i desideri. Invece, anche nella terza età, noi restiamo gli stessi di quando avevamo venti, quarant’anni. Certo, il tempo muta una serie di aspetti; ma quello che non cambia sono le ambizioni, ad esempio quella di essere felici, coesi con gli altri, la voglia di contribuire al valore del pianeta, il desiderio di fornire il nostro apporto in termini di idee. Questo tipicamente l’industria non lo vede, perché è ancora molto legata al tema dell’healthcare. E invece, c’è un’opportunità enorme legata a tutto il corso della vita delle persone, intesa nella sua ampiezza. Tutta l’innovazione che immaginiamo va trasferita anche nelle fasi avanzate della vita, senza presupporre che siccome una persona è anziana non abbia le stesse esigenze di felicità delle altre. In questa prospettiva, i settori industriali sono tutti indietro: l’automotive, il travel, e non solo. Guidare significa essere come gli altri e fare quello che si vuole; viaggiare significa imparare, dare sostentamento alla mente. La salute è legata alla relazione con il mondo. Senza contare il ruolo dell’educazione, che è cruciale, per una serie di ragioni: la prima è evidente, capire cosa fa bene o male, essere in grado di discernere: fumare, mangiare troppi grassi. Insomma, comprendere quali sono le scelte che possono attenuare i danni che ci procuriamo nel corso del processo di invecchiamento, e che sono la causa per cui poi questo si manifesta più o meno rapidamente.
Che progressi abbiamo fatto?
Adesso disponiamo di una capacità computazionale che prima non avevamo: i dati sono sempre stati lì, ma non avevamo la capacità di analizzarli come oggi. Si vedono adesso i primi chip disegnati espressamente per l’intelligenza artificiale, che non c’erano fino a tre anni fa: i nuovi hardware ci consentono, finalmente, di incrociare quei dati in modi un tempo sconosciuti e introdurre alcune grandi variabili, penso a quelle comportamentali, sociali e non solo. Se guardiamo dove investiamo i nostri budget in salute, il rapporto è 10 a 1 tra interventi a posteriori e di prevenzione: insomma, si interviene quando il danno è già stato fatto e si è manifestato invece che provare a evitarlo. Bisogna capire come ridurlo nel corso della nostra carriera di vita, chiamiamola così.
Usa l’espressione “carriera di vita”. Che però presuppone una conoscenza puntuale delle dimensioni rilevanti, da ottenere in un mondo che cambia velocemente e in cui i riferimenti non sono saldi. Mi spiego. All’inizio eravamo affascinati dai social network, oggi sappiamo che, come contraltare, comportano problematiche di isolamento, aggressività, polarizzazione e fake news. Adesso il metaverso ci promette di farci vivere esistenze in un altrove non meglio definito e irreale. Come si fa ad attrezzarsi a tutto questo?
Vorrei partire innanzitutto da un concetto: abbiamo un’idea stereotipata di chi sono i giovani e gli anziani. Serve un lavoro di scardinamento, di fusione generazionale, un’operazione di comprensione dell’altro, che non è impossibile.
In che senso?
Ad esempio, stiamo notando che la cosiddetta generazione Z è molto più interessata a dialogare coi propri nonni perché con loro ha trascorso una porzione di vita più ampia rispetto alle altre. Se saltano gli stereotipi, salta anche una serie di preconcetti. Lei citava la solitudine, ed è vero, crea danni. Ma se guardiamo i dati, sono i ragazzi, non gli anziani, a essere più soli. Poi è vero che probabilmente a quell’età si ha del tempo per recuperare: ma si tratta di un tema cruciale che tipicamente associamo alla terza età. Non è così.
Quindi i problemi possono essere sovrapponibili.
Assolutamente. C’è anche un altro fattore che sta diventando complicato da gestire: l’ansia da aggiornamento riguardo alla tecnologia, l’idea di essere tagliati fuori. Di solito se ne parla riguardo ai social network, ci si sente esclusi guardando le storie di qualcuno che finge di avere una vita fantastica. Ma c’è anche la sensazione di sentirsi scollegati se non si è in grado di tenere quel ritmo, che sta diventando pericoloso. Con l’educazione, che spiega i benefici di un aggiornamento tecnologico, si può parzialmente controbilanciare. Ma serve strategia. Il governo britannico ha messo in piedi quattro linee di spesa per un totale di sette miliardi di sterline: auto a guida autonoma, intelligenza artificiale, climate change e invecchiamento. Questo la dice lunga su come il governo Londra intenda affrontare la questione dell’invecchiamento. La missione è precisa: cinque anni di vita in salute in più, in media, nel 2035. Sembra un numero sbandierato in maniera, se si vuole, anche aggressiva: però ha delle motivazioni. E garantisce un ritorno da tutti i punti di vista: sociale, di benessere individuale, di sostenibilità economica. Il welfare britannico, come quello di tutti i paesi occidentali, è già alle corde, alle prese con patologie croniche che possono essere tranquillamente evitate con la prevenzione.
Oggi c’è un altro tema, di cui si parla poco: quello dei cinquantenni. Tanti lavori spariscono, altri se ne creano: difficile stare al passo, soprattutto psicologicamente per chi non ha livelli di istruzione elevati e difficilmente può reinventarsi…
Il lavoro non serve solo a fornire reddito, ma dignità: per questo motivo credo che politiche per cercare di mandare le persone in pensione il prima possibile siano devastanti. Si fa finta di risolvere un problema, ma se ne creano altri due o tre, grossi, e che nessuno, poi, vuole avere sul tavolo. Con le nuove scoperte potremo vivere molto più a lungo in salute, forse fino a 95, 100, 110 anni, mantenendo buone capacità sociali. E quindi, cosa fa una persona per quarant’anni, se va in pensione a sessanta?
Al momento, si resta fermi.
Allora dobbiamo inventarci delle modalità nuove, mi riferisco alla politica, ma non solo: anche ai privati. Bisogna reinventare le logiche aziendali, sradicare il concetto della pensione come elemento conclusivo del percorso di cittadino; chi ha fatto lavori fortemente usuranti va tutelato, ma gli altri hanno ancora moltissimo da dare, un patrimonio enorme di conoscenze da sfruttare, e che può diventare un asset per il Paese.
Si ripete spesso che per ogni sessantenne che va in pensione, si apre un posto di lavoro per un giovane.
Non è vero. Non c’è uno studio che lo confermi: lo ripete la politica, tutti ci crediamo, ma è una bugia. L’Italia ha una competenza scientifica che ci invidiano, e lo dico perché vivo all’estero da molti anni: deve essere una risorsa. Se uno è in pensione e vuole lavorare, bisogna permettergli di farlo in maniera semplice, ad esempio con detrazioni fiscali. Invece c’è lo stigma della pensione. E poi c’è il tema delle cosiddette “finestre”, che fanno più danni che altro, in mancanza di una strategia: se ne apre una finestra, e finisco per andare in pensione anche se non voglio, perché non so cosa accadrà in futuro. Accade spesso nel settore medico, ad esempio, ed è dovuto alla mancanza di chiarezza. Ma sono boutade che ogni governo tira fuori. Invece oggi abbiamo l’opportunità incredibile di ridisegnare questo sistema pensionistico pensato centocinquant’anni fa, nell’Ottocento. Da allora è cambiato tutto, se ci pensa, tranne quello: ma a quei tempi i lavori erano più usuranti, e l’aspettativa di vita molto più bassa. Non è possibile mantenere lo stesso registro, anche dal punto di vista del benessere individuale, del piacere dell’individuo per la vita.
Nel Regno Unito è vietato indicare l’età nel curriculum. Tra i nostri politici la questione non ha appeal. Il risultato è che è difficile trovare lavoro per chi ha superato i cinquanta.
La discriminazione legata all’età è violentissima. Ma non si tratta solo di indicare o meno l’età nel curriculum: quella può essere desunta leggendo altri elementi, guardando la lunghezza del documento. Parte del problema risiede nel modo in cui sono scritti gli annunci di lavoro: quando si cerca un candidato dinamico, veloce, parliamo di un linguaggio che fa sentire tantissimi inadeguati in partenza, e ancora di più chi non ha vent’anni. Il problema in sé non è il curriculum, ma tutto il resto: cioè come la società interpreta le stagioni della vita. Per una donna di 50 anni è impossibile trovare un lavoro. E invece, se si va a vedere su cosa si reggono le startup, non sono i giovani. Quelle che funzionano hanno spesso in squadra persone di esperienza.