Nel nostro long form domenicale vedremo come a segnare il declino delle grandi aziende non siano solo il mercato o la congiuntura: più spesso di quanto sembri il problema è in famiglia. Come raccontava Thomas Mann all’inizio del ‘900
Cosa accomuna Fiat, Ferrero, Esselunga, Luxottica, Sofidel? Non solo le dimensioni: sono campioni del capitalismo familiare, esempi di successo di avviati dall’intuizione di un imprenditore e poi cresciuti nel tempo, fino a diventare giganti. Naturalmente, non sempre il copione è questo. Anzi: più spesso che non, il meccanismo si inceppa, e la colpa non è solo di sfortuna, congiuntura, o mercati che cambiano. In molti casi, a porre fine alla traversata di aziende ancora dotate di potenziale è qualcosa di diverso: il salto generazionale, il passaggio di mano, cioè, dai fondatori agli eredi. Che non sempre – è l’amara constatazione – sono all’altezza.
“Le imprese familiari avrebbero, secondo molti studiosi, il vantaggio di essere più pazienti”
Difficole parlarne al di fuori dell’ambito accademico: una ritrosia che si deve al fatto che l’azienda, tutto sommato, è considerata dall’imprenditore alla stregua di una proprietà familiare, quasi fosse un immobile o una barca di lusso, di cui disporre a piacimento. Se dal punto di vista giuridico le cose stanno più o meno così, è evidente che il paragone è spuntato: dopo la creazione, l’impresa diventa patrimonio del Paese, in quanto organizzazione capace di creare occupazione e quindi benessere.
La letteratura specialistica ha chiarito che questo tipo di crisi è un fenomeno più diffuso di quanto appaia, al punto che lo storico statunitense dell’economia David Landes ha coniato un nome curios per il fenomeno: sindrome dei Buddenbrook.
Thomas Mann e la parabola di una famiglia industriale tedesca
Il primo ‘900 è un’epoca in cui tutto pare possibile. Ma in un clima proiettato verso il futuro (destinato a sfociare di lì a poco nella tragedia della Grande Guerra), un ventiseienne Thomas Mann va controcorrente e dà alle stampe il romanzo “I Buddenbrook”. Il sottotitolo all’edizione tedesca è esplicito: “Decadenza di una famiglia”. Mann, in sostanza, racconta l’epopea di una ricca dinastia industriale di Lubecca che, nel giro di cinque generazioni, passa dal successo al declino. Se l’esempio è paradigmatico, nella realtà c’è una differenza: le cose accadono molto prima. Spesso sono già i nipoti a smontare quanto costruito con fatica dai nonni.
“La Sindrome dei Buddenbrook fa riferimento al fatto che possono esserci cambiamenti importanti nella gestione delle imprese familiari con il susseguirsi delle generazioni – scrivono Sandro Trento, professore ordinario di Economia e gestione delle imprese nell’Università degli studi di Trento e Simonetta Vezzoso ricercatore di Diritto commerciale all’interno del medesimo ateneo nel saggio Evitare la sindrome di Buddenbrook: le imprese italiane e il ricambio generazionale. “La prima generazione è quella del fondatore e ha spesso tratti di tipo pionieristico, di grande resistenza, fiducia, capacità di superare le avversità e di accumulare risorse senza sperperarle. La seconda generazione di solito ha il ruolo di far crescere l’impresa, con la finalità di incrementare il potere e il prestigio della famiglia. La terza generazione avrebbe invece minore spirito di sacrificio, minore attaccamento all’azienda e preferirebbe i piaceri del tempo libero”.
“Il controllo familiare su un’impresa può essere un modo attraverso il quale, in alcuni paesi, ci si tutela dai rischi di comportamenti opportunistici da parte di potenziali soci”
David Landes, è più esplicito: “[…] era il turno della terza generazione, dei figli dell’abbondanza annoiati dal tedio del commercio e pieni delle aspirazioni bucoliche del gentiluomo di campagna […] Molti di loro si ritirarono e accelerarono la trasformazione delle loro imprese in società per azioni. Altri continuarono, occupandosi dell’impresa negli intervalli tra lunghi week-end che si concedevano, lavoravano per gioco e giocavano per mestiere. Alcuni di loro furono abbastanza avveduti da affidare la gestione a dei professionisti”.
Sindrome dei Buddenbrook: i problemi del capitalismo familiare
“L’impresa familiare”, proseguono Trento e Vezzoso, “può essere considerata una soluzione tipica dei paesi nei quali il diritto e la giustizia non funzionano in maniera efficiente. In particolare, dove l’ordinamento legale e soprattutto il sistema giudiziario sono meno sviluppati e più inefficienti l’utilizzo dei contratti per le transazioni economiche risulta più difficile. In queste situazioni, gli agenti economici hanno un livello di fiducia reciproca basso e i legami familiari possono rappresentare uno strumento alternativo alle relazioni contrattuali”. Insomma, “il controllo familiare su un’impresa può essere un modo attraverso il quale, in alcuni paesi, ci si tutela dai rischi di comportamenti opportunistici da parte di potenziali soci”.
“La proprietà familiare in generale conferisce all’impresa stabilità che le consente di prendere decisioni destinate a massimizzarne il valore nel medio-lungo termine”
Ma non è tutto. “Le imprese familiari avrebbero, secondo molti studiosi, il vantaggio di essere più pazienti” prosegue il saggio. Mentre le public companies sono soggette alla dittatura delle trimestrali (sulla base delle quali vengono valutate le performance dei manager) e puntano quindi al rendimento di breve termine, le imprese familiari sono più disposte a investire in progetti il cui rendimento è differito nel tempo, come quelli in ricerca tecnologica particolarmente lunghi e rischiosi. “La proprietà familiare – proseguono i due studiosi – in generale conferisce all’impresa stabilità che le consente di prendere decisioni destinate a massimizzarne il valore nel medio-lungo termine”. Anche perché esiste la preoccupazione per le generazioni a venire. Infine, questa stabilità rende più facili gli approcci con la politica, che possono trasformarsi in commesse, sconti fiscali, agevolazioni. Al politico piacciono perché è più facile trovare referenti con cui avviare un dialogo stabile nel reciproco interesse; e, per i proprietari, l’impresa è un modo per entrare nell’establishment del Paese.
Non mancano, però, i problemi. A cominciare dal nepotismo. “Nell’attribuzione delle cariche e delle deleghe il fondatore, invece di seguire un metodo meritocratico, può farsi guidare dagli affetti e preferire i propri familiari al posto di manager più capaci assunti dall’esterno” scrivono Trento e Vezzoso. La mancanza di meritocrazia e prospettive di carriera genera malessere diffuso in l’azienda: i dipendenti, sapendo di non poter avanzare, sono, quindi, demotivati, meno produttivi, sfiduciati.
Dall’altro lato, l’obiettivo di preservare il controllo familiare può limitare le possibilità di crescita dell’impresa stessa. Per aumentare di dimensione, infatti, è necessario creare una discontinuità ed aggiungere funzioni aziendali, che si tratti di logistica, finanza, marketing. Non sempre queste decisioni sono facili da assumere, soprattutto se coinvolgono professionisti esterni ed estranei al legame di sangue. Infine, si possono creare problemi sul fronte della successione: se non è pianificata in anticipo, scegliendo e formando per tempo chi sarà al vertice, il rischio è che l’azienda diventi il centro di lunghe e sannguinose faide familiari, in grado di affossarla.
Un tema noto: le raccomandazioni dell’Europa
Il tema è così noto al legislatore che, nel 1994, la Commissione Europea pubblica una raccomandazione in cui si prende atto che ogni anno sono migliaia le imprese che fronteggiano difficoltà legate alla successione. Si caldeggiavano, perciò, “interventi volti a sensibilizzare, informare e formare gli imprenditori” affinché preparassero il passaggio di consegne quando ancora in vita. Dodici anni dopo, nel 2006, Bruxelles interviene ancora con una comunicazione che evidenzia come gli sforzi non sono stati sufficienti: troppo spesso, questo il rilievo, si finiva ancora con il liquidare l’impresa. Anche perché mancavano mercati efficienti per cederne almeno una parte.
E proprio a questo punto, appare l’altra possibilità, la più efficace ma anche difficile dal punto di vista emotivo: la cessione a terzi del controllo. Una soluzione praticabile mantenendo la proprietà ma affidando la gestione a manager terzi, esterni alla famiglia (e realizzando quindi una separazione tra proprietà e controllo): oppure, in alternativa, cedendo del tutto l’impresa. “In ambedue i casi, gli eredi ricevono un capitale ma non sono coinvolti nella gestione. È la situazione che genera meno problemi dal punto di vista dell’efficienza” conclude il saggio di Trento e Vezzoso. In mancanza di una forte organizzazione interna e della capacità di prendere decisioni anche dure, la cessione del controllo si rivela la scelta migliore. O, almeno, la più efficiente per il sistema economico nel suo complesso. La parabola dei Florio, imprenditori nell’800, raccontata da Stefania Auci nel suo “I leoni di Sicilia” insegna. Ma è il caso di tante altre dinastie, sorte e tramontate nel giro di qualche decennio, incapaci di affrontare il trauma atavico della separazione.