Dopo l’abuso di videochiamate dei primi mesi, l’accordo è tacito: se non è strettamente necessario vedersi, la call si fa, certo. Ma in modalità audio. Il 4% non esce dal letto.
Steve Jobs non amava le complicazioni. Il visionario fondatore di Apple, che della semplicità fece un’icona, sceglieva di non perdere tempo davanti all’armadio. Il risultato è stato il dolcevita nero, diventato presto un simbolo al pari della mela morsicata. Non cambiava mai: si trattasse di una cena tra amici, di una riunione di lavoro, o una presentazione in diretta mondiale del nuovo iPhone, la divisa del ceo era la stessa.
Non era il solo. Parlando di supermanager e outfit iconici, impossibile non citare Sergio Marchionne. Il maglione del manager italo-canadese è diventato leggendario. Cravatta? Non pervenuta. Vezzi da uomo che ce l’ha fatta. Anche per lui, presumiamo, il lockdown non sarebbe stato un gran problema.
Ma per i comuni mortali, quelli costretti a vestire con la giacca persino sotto il sole di luglio, il Covid ha segnato il tempo della riscossa. Dopo l’abuso di videochiamate dei primi mesi, l’accordo è tacito: se non è strettamente necessario vedersi, la call si fa, certo, ma in modalità audio. Punto. Sono gli stessi dirigenti, prudentemente, a presentarsi con la telecamera disattivata, un segnale inequivocabile di via libera.
Via libera al pigiama
A questo punto, per i tanti abituati al rituale quotidiano del nodo (o del trucco, per le donne) si è spalancato un orizzonte nuovo. Un universo sospeso, in cui dignità e contegno dei primi tempi hanno ceduto – in più di un’occasione, e anche in contesti parecchio istituzionali – il passo allo sbracamento più truce.
I dati li dà Infojobs, portale di annunci di lavoro, sulla base di un’indagine condotta in occasione della “Giornata mondiale del pigiama in ufficio” che cadeva il 16 aprile.
Secondo il sito, da casa è testa a testa tra uno spezzato composto da mezzo busto elegante con aggiunta di pigiama e ciabattone (così si veste il 34,5% degli intervistati) e, dall’altra parte, outfit completo, scarpe comprese, proprio come si fosse in ufficio (32,6%). Scelta, quest’ultima, a dir la verità un po’ nevrotica.
Uno su cinque (il 20,6%) non fa più caso a cosa indossa, e sceglie capi buoni per tutte le situazioni, dal caffè (la macchinetta è stata sostituita dalla moka di casa) alla riunione del cda aziendale. Un dipendente su sette (il 15%), invece, opta per un approccio radicale alla questione, e non si toglie mai il pigiama.
Look e produttività sono collegati?
La domanda, a questo punto, è d’obbligo. Look e produttività sono collegati? Per il 69% degli intervistati, no: il modo di vestire non inciderebbe sulla produttività. Ma esiste anche una nutrita schiera di sostenitori del contrario: il 31% crede, infatti, che l’aspetto curato motivi maggiormente ad affrontare la giornata lavorativa, anche se non necessariamente trascorsa in ufficio.
Riguardo alle postazioni di lavoro, Il 58,2% degli intervistati si è organizzato con una postazione dedicata, l’8,5% non disdegna il divano e addirittura un 4% gestisce fogli Excel e progetti tra cuscini e piumone, cioè a dire: comodamente dal letto. Nomadismo digitale in versione casalinga per il 29%, che non ha una postazione di lavoro fissa. E magari, con la bella stagione, si concederà un’uscita tra balconi, giardini e gazebo.
Big Tech arretra: si torna in ufficio
L’indagine è chiaramente senza grosse pretese statistiche, e punta a stemperare il momento difficile con l’ironia. Ma ha il pregio di cogliere un aspetto: il telelavoro ha fiaccato molti. E, a parte i pochi da sempre abituati a operare in solitudine, per i più pare che la combinazione migliore sia un’alternanza tra lavoro in ufficio e da casa.
Se ne è accorta anche Big Tech: alle spalle i primi tempi, quando restare in ufficio era un’onta e il diktat era lasciare tutti a casa. Tutto finito. Le mode passano, le statistiche, invece, restano. Per giustificare il dietrofront, il management delle multinazionali del web ricorre di solito all’argomento della creatività, che sarebbe penalizzata quando manca la presenza: ma difficile dire se si tratti davvero di questo, o se le performance, lontano dai dirigenti, siano state giudicate insoddisfacenti.
Così, Google torna in ufficio dal primo settembre, ed era stata tra le prime a spedire tutti a casa. Anche Amazon pare sulla strada di riaprire i centri direzionali. Facebook, invece, opta per una posizione più morbida. “Nessuno ha ancora capito del tutto la portata di questo fenomeno” ha ammesso la vicepresidente Global Business Group Carolyn Everson, lasciando intendere che la decisione non è ancora presa, ma anche che ciò che è trendy non sempre è efficace. Spotify, dal canto suo, ha lanciato il manifesto “Working from anywhere“: flessibilità, certo, ma concordata col manager. Insomma, decide l’azienda volta per volta. L’unica a resistere, almeno fino adesso, pare Twitter: per l’azienda di Jack Dorsey il lavoro da casa è destinato a durare. Fino a nuovo ordine, si intende.
Intanto, c’è chi prende atto del cambiamento e prova ad adeguarsi. Come la startup milanese Nibol: nata per trovare una postazione ai freelance in caffetterie e coworking, da qualche mese sta virando verso la gestione delle prenotazioni in azienda. Perchè il vero status symbol di domani sarà la scrivania.