“Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” recita l’articolo 27 della Costituzione. E il lavoro può essere la strada per riabilitare di chi finisce dietro le sbarre. Caffè Galeotto è un progetto per la produzione e vendita di caffè lanciato dalla cooperativa sociale Pantacoop, guidata dal 60enne romano Mario Pellegrini. Oggi ci lavorano sette detenuti del Carcere di Rebibbia. Non devono uscire dalle mura carcerarie, perché la torrefazione si trova all’interno. E lì ogni giorno si miscela, si tosta, si macina il caffè, e si fabbricano le cialde.
Il negozio che vende caffè fuori dal carcere
I prodotti sono poi distribuiti all’esterno attraverso ordinazioni e consegne. Ma anche tramite un piccolo negozio accanto al penitenziario, gestito da un detenuto “articolo 21” (regime che consente il lavoro esterno, ndr), e che vende i pacchetti di caffè nella via adiacente a Rebibbia. In più, nell’officina creata dentro le mura carcerarie, si riparano le macchinette per il caffè da bar. Sono quelle offerte in comodato d’uso a chi diventa partner del progetto.
Imparare un mestiere per rifarsi una vita
Un programma di recupero a favore dei carcerati, a cui si offre l’opportunità – una volta scontata la pena – di imparare un mestiere e rifarsi una vita. L’idea nasce a fine 2014, quando Pellegrini riceve in concessione uno spazio all’interno del carcere. Niente fondi pubblici, così per lanciare l’attività accende un mutuo. Viene creata prima la torrefazione, poi anche l’officina per la riparazione delle macchinette. Un’attività che copre tutta la filiera, racconta a StartupItalia il fondatore: “Importiamo il caffè crudo e arriviamo a confezionare il prodotto finale, fino all’impacchettamento”. I ragazzi sono formati attraverso corsi tenuti da esperti del settore, imparano a conoscere i chicchi, a lavorarli e anche a spiegare ai clienti i dettagli delle miscele.
Un caffè d’eccellenza
Il prodotto finale è d’eccellenza. Si tratta di un caffè “processato manualmente, a differenza delle torrefazioni industriali che si affidano alle macchine” spiega il sito di Caffè Galeotto. Le impurità, si legge, “vengono tolte manualmente, senza eliminarle con la tostatura che ha il limite di compromettere anche i pregi dei chicchi”. La mission della cooperativa “è sempre stata quella del recupero dei detenuti” afferma Pellegrini. “Diamo loro in mano un mestiere per trovare un’occupazione una volta scontata la pena e usciti dal carcere”. Una chance “molto apprezzata”, tanto che per i ragazzi coinvolti nell’iniziativa “il tasso di recidiva si è azzerato” assicura Pellegrini.
Niente più recidive per gli ex detenuti
“Nessuno è mai più tornato indietro, né sono state commesse infrazioni durante l’esecuzione della condanna”. Il progetto “è utile per loro e per tutti, perché va nella direzione di una società più sicura”. I percorsi di reinserimento sociale vanno avanti anche dopo l’uscita dal carcere. “Alcuni ragazzi sono assunti direttamente da noi nella cooperativa”, riferisce l’imprenditore. Ma a seconda delle loro attitudini – “alcuni sono più portati per i lavori manuali” – vengono formati e indirizzati verso diversi rami di attività. Pentacoop si occupa infatti anche di edilizia, creazione di infissi, data entry, ed è in questi ambiti che forma e dà lavoro ai detenuti. “In modo diretto, oppure affidandoci a altre cooperative sociali con la stessa mission: ce ne sono tantissime”, prosegue Pellegrini.
“Non oziamo più sulle brande in cella”
Negli anni sono state create collaborazioni tra il carcere di Rebibbia e alcune aziende, come per esempio Autostrade per l’Italia. Tra le iniziative, un laboratorio di telelavoro per l’inserimento di dati. “Un’esperienza che ha cambiato il modo di vivere il carcere dei detenuti” racconta in un’intervista pubblicata sul sito di Pantacoop uno dei detenuti coinvolti. “Alcuni di noi hanno deciso di non restare più a oziare sulle brande, ma di crearsi un’alternativa”. Per lui in passato c’è stata “una società che ho deluso”, ma oggi “riesco a recuperare con questo lavoro i valori che ho mortificato”. Ed è questo “che racconto a mio figlio ingegnere quando viene a trovarmi in carcere”.