Si chiama sindrome da boreout e sui social il dibattito è partito: le persone vivono bene o male la propria quotidianità al lavoro? Si sentono sufficientemente coinvolte, motivate e ingaggiate con mansioni gratificanti? Nei giorni scorsi Alessandro Benetton, fondatore e managing partner del fondo 21 Invest, ha pubblicato un video sul proprio profilo LinkedIn per avviare una discussione. I primi a parlare di sindrome da boreout sono stati i ricercatori svizzeri Peter Werder e Philippe Rothlin nel 2007, anche se il termine è stato citato già negli anni Novanta.
Cosa significa boreout?
Come si legge sulla BBC il boreout potrebbe essere riassunto come noia cronica, ossia una situazione lavorativa in cui il dipendente non rintraccia stimoli di alcun tipo sul posto di lavoro. Il fenomeno è diffuso ed è possibile che in futuro possa guadagnarsi la stessa attenzione raccolta dal burnout, quella condizione frustrante che diverse persone sperimentano e di cui talvolta parlano sui social, sfogandosi.
Leggi anche: Smart working, quanto piace agli italiani e convince le aziende? I dati
Dalla pandemia in avanti la relazione tra lavoro e salute mentale è diventa sempre più importante, soprattutto per le giovani generazioni. Così come il burnout dovrebbe preoccupare imprenditori e aziende, allo stesso modo questa noia cronica è un rischio per la produttività: un dipendente o collaboratore poco ingaggiato e annoiato lavora malvolentieri. La questione al momento sembra interessare soprattutto la stampa anglosassone: secondo Forbes per le imprese rappresenta un rischio ben più grave rispetto a quello derivante da stress eccessivo.