Primo problema: quanti sono. Secondo: come contarli. Sono sempre di più i feeelance, anche in Italia. E mancano le regole per tutelarli. In occasione del primo maggio, ne parliamo con la ricercatrice economica già presidente di Acta, Anna Soru
Primo problema: quanti sono. Secondo: come contarli. Terzo: se in un passato neanche troppo lontano le aziende pagavano profumatamente i freelance perché i costi, nella libera professione, sono tutti a carico del lavoratore, oggi la sensazione è che negli onorari si scontino libertà e autonomia. Anna Soru è stata fondatrice e a lungo presidente di Acta, prima di passare la mano qualche mese fa. Acta è tra le principali associazioni che raccolgono gli autonomi. Nel corso di un ventennio ha partecipato spesso a importanti tavoli istituzionali sulle tematiche della libera professione. Come ricercatrice in ambito economico, Soru conosce perfettamente la questione e ne ha seguito l’evoluzione.
Freelance, regolamentazione difficile?
I freelance aumentano un po’ ovunque, complice anche l’ondata di shock economici, dalla Grande Crisi in avanti. Secondo alcuni dati riportati da Forbes, nel 2021 ben il 35% della forza lavoro americana rientrava nella definizione: un totale di 59 milioni di persone, con impennate al crescere dell’istruzione (51% tra i titoli di studio più elevati, dato in aumento). La tendenza trova conferma anche in Italia. Secondo le stime più affidabili, afferma Soru, oggi sarebbero 1,5 milioni i liberi professionisti “puri” che oeprano nello Stivale, quelli, cioè, che esercitano esclusivamente in questa modalità.
A questi dati, però, non fa da contraltare un sistema di regole in grado di tutelarli. Il risultato è che, per molti, lavorare in autonomia significa percepire compensi più bassi senza peraltro poter accedere agli ammortizzatori sociali previsti per i dipendenti. Una situazione lose-lose, molto diversa dallo stereotipo del “consulente”.
Soru, il dato sui liberi professionisti americani è impressionante. Ma anche in Italia i freelance sono in aumento, seppur in misura più ridotta. Cosa le fa pensare?
Comincerei da un distinguo: negli Stati Uniti i freelance hanno una definizione diversa rispetto a noi, perché nella categoria rientrano tutti i lavoratori che non hanno un rapporto continuativo con il cliente. Insomma, in America o si è dipendenti assunti, o si è freelance.
Allora proviamo a contarli: quanti sono i freelance in Italia?
Nell’accezione comune del termine, se intendiamo quindi il lavoro autonomo professionale escludendo artigiani, commercianti e ditte individuali, i freelance sono circa 1,5 milioni. Questo il dato più affidabile, che proviene dall’Agenzia delle Entrate. Le statistiche che citano cifre più alte prendono spesso raccolgono i dati delle casse private, un procedimento che, però, può generare confusione. Il problema è che i freelance si dividono in mille rivoli.
Ma è vero che stanno aumentando?
Sì, ed è accaduto anche durante la pandemia. Ma la crescita del fenomeno non è solo italiana: si riscontra un po’ ovunque.
Come interpreta questa tendenza?
Non ne dò una lettura positiva. Personalmente, ho vissuto le varie fasi del fenomeno: la crescita del lavoro autonomo risale già agli Anni Novanta. Ma allora si trattava soprattutto di ricerca di flessibilità da parte delle imprese, quando non ritenevano ci fossero le condizioni per internalizzare alcune attività. Poi è arrivato il 2008, con la Grande crisi, che ha comportato un grandissimo calo nei compensi dei professionisti autonomi. In certi ambiti, come la pubblicità, sono crollati anche del 90%, anche se va sottolineato come, forse, prima fossero diventati troppo elevati. Sta di fatto che, a quel punto, le aziende hanno iniziato a ragionare in un altro modo. Se prima lo scambio era: ti pago un po’ di più perché ti riconosco flessibilità e mancanza di tutele, oggi è come se si chiedesse al libero professionista di scontare l’autonomia e l’assenza di vincoli. Il fatto che non si considera è che, per tanti, essere freelance non è una scelta di fine carriera, ma l’unica possibilità. A volte anche per cominciare: per chi vuole lavorare come giornalista, ad esempio, non ci sono alternative.
Ci sono alcuni settori in cui il fenomeno è più diffuso.
Il fatto è che in certi settori non c’è stata l’acquisizione di diritti che ha caratterizzato altri ambiti: il terziario, ad esempio, è meno sindacalizzato rispetto all’industria. Il dibattito sui camerieri che non si trovano ne offre uno spaccato realistico: in alcuni ambiti si dà per scontato di trovare personale che accetti qualunque condizione, salvo poi sorprendersi quando non accade. Ultimamente, però, l’ingranaggio si è inceppato, e la manodopera ha cominciato a scarseggiare. Spero che si arrivi al punto in cui anche le imprese capiscano che il lavoro va pagato il giusto.
Si tratta anche di una partita individuale. Quanto conta, per un freelance, la capacità di negoziare buone condizioni?
Nel lavoro dipendente esiste da parecchio la contrattazione collettiva; per i freelance, al contrario, mancano parametri di riferimento, non c’è neanche un salario minimo orario: si rientra perfettamente nella legalità con qualunque cifra, per quanto irrisoria. In questa situazione, non c’è nessun appiglio. L’unica strada che le associazioni come Acta possono perseguire, e l’abbiamo fatto spesso, è diffondere la consapevolezza che esistono limiti da non superare. Un processo complicato: ma l’esempio della ristorazione è un buon segnale.
Chi era il freelance prima? E chi è oggi il libero professionista?
Un tempo era qualcuno che offriva delle competenze specializzate, spesso sviluppate nel corso di una precedente esperienza in azienda. Facciamo un esempio: non tutte le realtà possono permettersi di avere una struttura di marketing. Per le pmi spesso non ha senso internalizzare, questione di costi. Così, per lanciare una campagna una tantum, si ingaggiava un professionista freelance. Ma di solito si trattava di attività di staff, dell’avvio di progetti, e non di line, cioè attività di gestione.
E oggi?
Le cose sono cambiate. In alcuni settori si è arrivati ad esternalizzare attività di line: ad esempio, nell’editoria, dove si vedono persino editor esterni. In questo senso, esternalizzare è diventata una strategia diffusa per ridurre i costi, e non una scelta legata a un bisogno momentaneo.
Esistono delle eccezioni. Il settore informatico sembra immune dalla corsa al ribasso che caratterizza gli altri.
Si deve alla grande richiesta di professionisti. Ma anche in quel caso, non è detto che tutti quelli che di fatto lo sono abbiano davvero scelto di essere freelance. C’è da aggiungere che, in un paese come l’Italia, la competenza tecnica rappresenta una barriera maggiore rispetto alla competenza umanistica, e questo riduce la concorrenza. Ma forse la distinzione ottimale non è neanche quella per settori.
E quale, allora?
Uno degli elementi più importanti è la passione. Nei lavori basati sulla passione si accettano compensi molto bassi perché esistono compensazioni non monetarie. Ciò accade anche in tutte le attività che promettono altre forme di gratificazione, come l’acquisire certi status o frequentare certi mondi. Un esempio: molti tra quanti lavorano nella moda spesso non fanno neanche un lavoro interessante, ma, pur di frequentare quel mondo, si raccontano – e raccontano agli altri – una favola. Chi fa l’idraulico, invece, di solito lo fa semplicemente per portare a casa uno stipendio.
E di solito ci riesce abbastanza bene.
Il fatto è che, quanto più ci si allontana dal mondo patinato, tanto più si chiede di essere pagati. Ma qualcosa sta cambiando anche nell’informatica: per esempio, in quella legata ai videogiochi mi pare sia diverso. Laddove c’è passione, cala il potere negoziale: l’abbiamo visto in tanti contesti, dalle arti all’editoria al cinema.
Torniamo al 2008-2009: cosa è cambiato in quel biennio?
I compensi non sono stati semplicemente ridimensionati dalla crisi: sono crollati. Anche nel mondo ordinistico c’è stato calo molto forte, spesso attribuito a liberalizzazioni di Bersani. Ma non sono sicura che si tratti solo di quell: la crisi è stata una spallata, ma a mio parere il percorso era già iniziato da tempo. Perché, in mancanza di contrattazione collettiva, nei momenti di crisi accade proprio questo: i compensi crollano.
Verso che mondo stiamo andando?
La Commissione europea ha recentemente presentato alcune linee guida per la contrattazione collettiva nel lavoro autonomo, riconoscendo che esiste asimmetria di potere contrattuale tra le parti quando il singolo professionista si trova da solo di fronte a un’azienda. È un cambiamento importante rispetto al tradizionale orientamento di Bruxelles, che considerava ogni accordo tra freelance come lesivo della concorrenza. Spero che, sulla scorta di queste iniziative, la contrattazione collettiva dei liberi professionisti aiuti a difenderne i compensi e a uscire dall’uso distorto del lavoro autonomo. Che dà un doppio vantaggio alle aziende: risparmiano sui contributi, senza essere sottoposte ad alcun vincolo.
L’aumento dei freelance è un fenomeno irreversibile? O si tratta di una fase transitoria?
Non so neanche se sia questo il punto, perché, accanto a chi vorrebbe essere dipendent senza riuscirci, è altrettanto vero che esiste una quota crescente di persone che desidera realmente più autonomia. Il problema è andare verso un sistema di diritti che non sia ancorato solo al lavoro dipendente, sia in termini di welfare che di compensi. L’articolo 36 della Costituzione italiana stabilisce che il compenso debba essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro: basterebbe applicare quello.
Domanda finale secca: esistono – o almeno, esistono ancora – dei freelance soddisfatti?
Anche i dipendenti hanno problemi, ogni modalità lavorativa ha pro e contro, e solo chi ha provato entrambe le realtà può essere oggettivo. Senz’altro un freelance ha la possibilità gestire il proprio tempo e clienti in autonomia, e questo ha un valore di per sé. Ma se, come sta accadendo oggi, diventa un fattore che costringe a rinunciare a un compenso adeguato, allora c’è qualcosa di sbagliato.