Cosa c’entra con le aziende e con il mondo del lavoro il film di animazione Inside Out 2, co-prodotto da Pixar Animation Studios e Walt Disney Pictures, uscito nel giugno scorso e subito campione d’incassi in Italia e nel mondo? Cosa c’entra con manager, dirigenti e professionisti rampanti una pellicola in apparenza destinata a un pubblico preadolescente e alle loro famiglie?
Ebbene, anzitutto Inside Out 2, sequel di quello uscito nel 2015, non è solo un cartone per preadolescenti, anzi: ha una complessità e stratificazione di significati e una quantità di implicazioni che può cogliere appieno solo chi conosce la teoria della mente e delle emozioni dello psicologo statunitense Paul Ekman e del suo gruppo di ricerca, sulla quale il film è costruito.
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Ciò nonostante Inside Out 2 ha superato molti record d’incassi, il che vuol dire che non l’hanno visto solo intellettuali e persone esperte di psicologia. Infatti, il film riesce a parlare a tutte e tutti. E lo fa mettendo in scena e personificando – in modo giocoso e leggero – le cinque emozioni di base che muovono i comportamenti umani, anche quando non ce ne rendiamo conto o addirittura le neghiamo: gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto.
È un corredo emotivo fondamentale, strettamente intrecciato alla nostra biologia e neurofisiologia, e riconosciuto persino da chi critica l’impostazione di Ekman, sottolineando viceversa il nesso che le emozioni umane hanno con l’apprendimento, e dunque con le variabili sociali, culturali e linguistiche. Ora, alle cinque emozioni di base già presentate nel primo Inside Out del 2015, il sequel ne aggiunge una complessa, ma sempre più centrale nella società contemporanea: l’ansia.
La centralità dell’ansia, non solo in Inside Out 2
È proprio per l’arrivo del personaggio Ansia, insieme a un manipolo di nuove emozioni meno rilevanti, che tutto cambia nella vita della giovane protagonista. Ed è questo uno dei messaggi che il film lancia ai Paesi sviluppati e in corsa per lo sviluppo in cui i disturbi ansioso depressivi crescono da anni, specie dopo la pandemia: guardate come nasce l’ansia, come si trasforma in panico, come paralizza la mente e il corpo, come ci disconnette dalle emozioni più sane. Guardate e guardatevi dentro, dice Inside Out 2.
Per troppi anni si è pensato non solo che parlare di emozioni in azienda fosse fuori luogo, ma che mantenerle separate dal lavoro fosse addirittura necessario per garantire il successo e il raggiungimento dei risultati, tanto alle persone quanto alle organizzazioni. L’idea era che l’efficienza e la produttività hanno bisogno di razionalità e che questa funziona al meglio se riesce a prescindere dalle emozioni o almeno a tenerle sotto controllo.
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Negli ultimi anni, invece, diverse ricerche internazionali hanno mostrato quanto le emozioni possano incidere anche sulla motivazione e sul rendimento professionale, non solo sulla vita privata. La pandemia, poi, ha acuito le ripercussioni negative che emozioni come paura, tristezza, ansia, angoscia hanno anche sulla vita lavorativa oltre che su quella privata. Non a caso dopo la pandemia è nato il fenomeno della “great resignation”, cominciato negli Stati Uniti e poi registrato in tanti paesi, Italia inclusa.
È una tendenza ancora in atto che, anche quando non spinge alle dimissioni, produce effetti come quelli che emergono dall’ultima ricerca che ha condotto in Italia Randstand, la multinazionale olandese che dal 1960 si occupa di selezione e formazione del personale. Secondo il Randstand Workmonitor 2024, infatti, al primo posto fra i fattori ritenuti più importanti sul lavoro c’è il work-life balance, che viene prima della retribuzione e della realizzazione personale. In questa scala, la carriera sta solo al nono posto fra i valori dichiarati dalle persone intervistate. Inoltre, solo il 60% del campione è soddisfatto del proprio ruolo, il 22% sta già cercando un altro lavoro e il 43% prenderebbe in considerazione l’opportunità di farlo nei prossimi mesi.
I luoghi di lavoro tossici
Cosa c’entra questo con le emozioni? Ebbene, se l’insoddisfazione professionale è in aumento, se diminuiscono le persone che vedono nel lavoro la principale fonte di realizzazione, qualcosa nelle aziende davvero non funziona. Non a caso si parla sempre più spesso di ambienti di lavoro tossici: sono quelli caratterizzati da scarsa collaborazione fra colleghi, nessun incoraggiamento da parte dei manager, mancanza di rispetto diffusa, carichi di lavoro irragionevoli. Nei casi più gravi, poi, ci sono molestie, discriminazioni, mobbing. Ma anche senza arrivare a questi estremi in generale è tossico ogni ambiente in cui la competizione e l’aggressività prevalgono sulla collaborazione e manca l’attenzione per le persone.
Per dirla con lo psicologo statunitense Daniel Goleman, un ambiente è tossico se manca di intelligenza emotiva. Infatti, come emerge dal suo ultimo lavoro Optimal, è solo attraverso una consapevolezza delle proprie emozioni e di quelle altrui, dai vertici aziendali in giù, che si sbloccano le risorse psicologiche che permettono alle persone di raggiungere obiettivi e traguardi. Il che non vuol dire aspirare alla perfezione né a un ambiente di lavoro ideale, idilliaco e privo di conflitti – che non esiste – ma a obiettivi più realistici, non definiti in base a canoni astratti, ma calibrati su ciò che fa stare meglio le persone, tenendo in considerazione le loro capacità, ma anche i loro difetti e limiti.
Cosa insegna allora Inside Out 2? Che le emozioni sono inevitabili sempre, sul lavoro come nella vita, e lo sono anche quelle più negative, come la paura, la rabbia, l’ansia, da cui nessuno è immune. Ma non si scappa da tutto ciò cambiando lavoro, scegliendo il part time o dando più valore alla vita privata. Non soltanto, almeno.
Riconoscere le emozioni
Anzitutto perché anche un altro lavoro può rivelarsi tossico. Ma soprattutto perché dalle emozioni (e da sé stessi) non si scappa mai, sul lavoro come nella vita. Perciò è inutile illudersi di controllarle o reprimerle, che non è possibile. Casomai bisogna imparare a riconoscere le proprie e quelle altrui, cercando di elaborarle e indirizzarle in modo costruttivo, e aiutando gli altri a fare altrettanto. Una lezione che dovrebbero imparare i vertici aziendali e chi gestisce le risorse umane.