Il mercato del lavoro è in continua trasformazione. Non è facile stare al passo coi tempi. Ecco perciò alcuni consigli di Fabiana Andreani, una delle massime esperte italiane in orientamento e carriera, seguitissima anche sui social
Parlo di colloquio di lavoro e quali sensazioni ti vengono in mente? La paura del giudizio, un senso di soggezione, la frustrazione per non avere un seguito? Perché, diciamoci la verità, ci siamo anche stufati di essere trattati come numeri e accantonati. E se ti dicessi che piano piano i processi di selezione stanno cambiando e l’incontro con il recruiter sarà qualcosa di molto diverso dal cliché del “Mi dice tre suoi difetti?” L’evoluzione è già in atto e quattro sono le direttrici principali che potrai osservare nei tuoi prossimi colloqui e come prepararsi.
Basta domande “da colloquio”
Fa molto ridere un video di Frank Gramuglia uscito su TikTok qualche giorno fa dove l’attore interpreta uno smaliziato candidato. Alla classica domanda “Perché la dovremmo scegliere?” risponde seccato: “Piuttosto mi dica lei perché dovrebbe scegliermi?” “Perché questa posizione è libera? La gente si licenzia?” Tra i sorrisi inevitabili, appare una reale intuizione: queste domande non-sense irritano e non aggiungono nulla all’incontro. Uniamo al gruppo anche i rompicapi alla Google come “quante palline riempiono questa stanza?”e avremo tutta una serie di quesiti “da colloquio” da evitare e che ci permetteranno di distinguere l’azienda vetusta da quella più attenta alle nostre esigenze.
Due ragioni principali: la prima è che la candidate experience, intesa come il modo con il quale il candidato vive le selezioni e raccoglie informazioni sulla struttura, è preziosissima per mantenere una reputazione elevata e attrarre talenti. Un candidato che attraversa un processo di selezione trasparente, dove si sente ascoltato in uno scambio proficuo, anche se non selezionato, sarà più propenso a raccomandare quella struttura e trattenerla nella mente come employer of choice. Differente il caso di una selezione dove gli equilibri sono fortemente sbilanciati, vige un tema di soggezione, l’ascolto dell’altro è nascosto dietro proclami come “Siamo leader di mercato” o informazioni poco trasparenti sul ruolo (“Questo è un ruolo dove la persona deve indossare più cappelli”). Abbiamo avuto tutti o quasi un’esperienza del genere, vero?
La seconda ragione è che il far impazzire un candidato in rompicapi alla Turandot o sfidarlo in calcoli veloci non serve quasi più a nulla perché va a indagare competenze già superate dalle macchine. Allora cosa ci dovremo aspettare? Come anche precisato da Giulio Xhaet nel suo libro “Da Grande” e riassunto in questo post Instagram, oltre le prove tecniche necessarie per valutare la necessaria preparazione, andranno per la maggiore domande comportamentali (“Come si comporterebbe se fosse in disaccordo con il suo capo?”), racconti di episodi (“Mi dice quale ruolo ha avuto nei project work universitari?”) oppure role play di simulazione (“Mi dice da dove inizierebbe per il lancio di questo prodotto destinato a neo-mamme?”). Insomma, espedienti per individuare quelle caratteristiche che ci distinguono dalle macchine come empatia, leadership, pensiero non lineare, creatività…
Intelligenza artificiale
Anche la funzione HR sta diventando sempre più permeata da un approccio data driven. Lo confermava già una ricerca LinkedIn di un po’ di tempo fa, anno dopo anno si assiste ad un aumento di circa il 60% di figure professionali che integrano competenze analitiche nel proprio profilo da HR. I motivi sono abbastanza semplici? I dati aiutano le decisioni di business, snelliscono i processi, migliorano la retention, la gestione dei costi e guidano attività di talent acquisition e recruiting in modo da rendere i processi più efficaci, ottimizzati alle esigenze delle varie business line e soprattutto anche privi di bias cognitivi legati ad aspetti non relativi alle competenze in gioco (Genere, provenienza, aspetto, scarsa competenza…).
Per le aziende con alti volumi di selezione, aspettiamoci pure la presenza di software ATS (applicant tracing system) in grado di gestire e reportizzare la pubblicazione di annunci, il primo screening di CV, l’agenda delle prove e i vari feedback in maniera collaborativa anche con le altre funzioni aziendali. All’intervista a distanza tramite Zoom, Meet, Teams, Webex, grande protagonista del periodo pandemico, si affiancheranno sempre di più software di colloquio in differita (ne esistono già come HireVue, Modern Hire o 60Rec) dove il software presenta le domande al quale il candidato dovrà rispondere entro lo scadere di un timer. L’AI potrà aiutare anche qui a scremare assicurando – si spera – una selezione priva di bias. Resta il fatto che, almeno per il momento, questi aiuti dal software saranno limitati alla scrematura iniziale delle candidature mentre il processo di scelta nei vari step sarà ancora nelle mani del fattore umano del talent acquisition team.
Gamification
La talent scarcity o difficoltà a reperire i talenti giusti è una preoccupazione che l’87% ha già sperimentato o pensa di dover affrontare in futuro (dati McKinsey e company su report Randstad) soprattutto per figure specialistico-tecniche e dalle ormai super citate lauree STEM. Quando i talenti sono pochi e la competizione con le altre aziende, che si fa? Si lavora sull’immagine e sui valori attraverso attività di employer branding, altra figura HR in rapidissima crescita, e si cerca di intercettare i candidati dove si formano, a incontrarli con eventi oppure a includere elementi di gioco o sfida nel processo di recruiting.
Qualche esempio? La stretta collaborazione delle aziende con gli ITS (Istituti Tecnici Superiori), vera risorsa del panorama formativo italiano, già nella formazione con progetti pratici e come sede di stage. Per certi settori, come per esempio quello tessile, le figure che escono dagli ITS e che coniugano competenze tecniche con attenzione alla sostenibilità sono degli unicum di talento che ancora l’Università non forma. Via libera anche ad Open day delle aziende ovvero giornate nelle quali le strutture aprono le porte, organizzando incontri e open lesson per incontrare direttamente i candidati. Con il 2023, assistiamo infatti ad un deciso ritorno degli eventi in presenza ma con modelli diversi dalla solita fiera del lavoro, più improntati all’education, empowerment e orientamento. In ultimo, la nascita e crescita di forme di selezione dove, invece di essere valutati dal curriculum e colloqui, si affrontano prove e sfide. Come per esempio gli hackhaton, dei quali strutture come VGen hanno fatto la loro attività centrale. Oppure selezioni gamification based come gli OD Games di One Day Group, basati sul modello degli Hunger Games, Manpower Gaming Experience che ti permette di tradurre le tue soft skills in competenze preziose per il lavoro oppure Heineken Go Places dove, per velocizzare il processo di selezione la persona interessata ad Heinken può partecipare ad un video interattivo sotto forma di videogioco.
Diversity, Equity, Inclusion e Belonging
Di questi giorni la conferma che il Parlamento Europeo ha approvato la direttiva sulla trasparenza salariale, la cui novità principale è inserita nell’articolo 5 del documento dove si prevede l’obbligo per le aziende di «individuare il livello retributivo iniziale o la relativa fascia da corrispondere al lavoratore per una specifica posizione o mansione» da fornire già nell’annuncio o al colloquio di lavoro, senza che sia richiesto. Una misura che, in attesa di essere recepita in Italia (abbiamo tre anni) ha già riscosso molto clamore. Perché al di là dei proclami, le facili iniziative di green o pink washing, avere un’azienda della quale si condividono i valori e che assicuri condizioni e trattamenti equi è diventato una necessità per la maggior parte degli Italiani. Infatti, secondo il Workmonitor 2023 di Randstad, per il 79% degli italiani i valori e gli obiettivi dell’azienda sono rilevanti per giudicare un posto di lavoro e il 48% non accetterebbe un lavoro se non sentisse un senso di appartenenza. Addirittura secondo lo State of the Global Workplace 2022 di Gallup, l’Italia sarebbe fanalino di coda dei Paesi Europei per il grado di employee engagement, con solo il 4% di dipendenti che si autodichiarano realmente coinvolti e compresi nella visione dell’azienda.
Quanto fa e offre l’azienda dovrà essere raccontato a partire dai principali touchpoint con il candidato come il sito aziendale, i social e gli annunci di lavoro. Invito a leggere quelli di Ferrero su LinkedIn come esempio perfetto: non solo competenze ricercate e attività ma anche dichiarazioni nelle quali l’azienda si impegna a fornire un posto di lavoro d’eccellenza. Altro asset fondamentale sarà anche la comunicazione che non dovrà essere solamente istituzionale ma che vede sempre più la partecipazione di programmi di ambassador. I post dei dipendenti coinvolgono più di quelli della corporate: allora perché non formarli a questo ruolo di porta voce in modo da portare viva testimonianza a chi è interessato a quest’azienda. Case history illustre quella di McDonalds Italia su TikTok. Per sfatare gli stereotipi legati a lavorare nei ristoranti della catena, ha coinvolto gli stessi dipendenti a raccontare la propria esperienza e cosa ne hanno ottenuto secondo la grammatica dei trend. Il risultato? Un successo. L’hashtag #mcditaliapeople al momento raccoglie più di 100M di View, alcuni superano le 500k View e troverai uno spaccato reale di quello che l’azienda offre e dell’atmosfera di lavoro.
E tu saresti pronto a trasformarti in ambassador della tua azienda?