Qualche giorno fa ho pubblicato su TikTok e Instagram un video di suggerimenti su lavori estivi da fare a partire dai 16 anni in su. Pensavo poter fare cosa utile e gradita ai ragazzi e ragazze che mi seguono e invece, con un po’ di stupore, i commenti più accesi sono arrivati delle mamme.
La presenza dei genitori come pubblico dei miei contenuti sta diventando costante: da un lato, la difficoltà di stare al passo con la tecnologia fruita dai figli li porta a chiedere informazioni a figure come la mia e dall’altra, la tendenza – non generalizzata ma crescente – di ingerenza nelle scelte di studio o lavoro sembra fare il resto.
Prima lo studio e poi il lavoro?
Premetto: molti commenti erano positivi e incoraggianti ma quelli inattesi hanno riguardato le mamme pronte a difendere la prole dall’esperienza lavorativa: «Io non lo mando a farsi sfruttare», «In parrocchia nemmeno lo pagano», «Ma perché dover lavorare così presto» e, ancora: «Il lavoro più tardi è, meglio è».
Sia chiaro, sono sempre contro le situazioni inique dove, a orari di lavoro indefiniti, seguono paghe scarse o lavori eccessivi ma qui si parla soprattutto di soluzioni temporanee e saltuarie per tenersi occupati durante i mesi estivi.
In Italia, la visione è ancora quello dello studio che si contrapporrebbe al lavoro. Mentre il primo raggiunge livelli d’eccellenza, come per esempio il ranking del Politecnico di Milano, verso le attività professionali mancano una attività di orientamento nelle scuole che rispondano efficacemente alle esigenze dei territori.
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La visione attuale è quella che mi riassume Federico, attualmente studente alla UvA di Amsterdam : «In Italia piuttosto che fare dei lavori umili e non troppo qualificanti, veniamo spinti dai nostri genitori a concentrarci unicamente sugli studi che sono totalizzanti e richiedono che non permette di fare altre cose. Qui in Olanda lavorare è un valore, forse un po’ il retaggio del calvinismo/protestantesimo. Fatto sta che i ragazzi da quando anno 15 lavorano e questo è molto stimato ed apprezzato».
L’esempio tedesco
Che i Paesi del Nord Europa o di matrice germanica avessero una forte considerazione del legame tra lavoro e studio non è una novità. In Germania è comune la prassi dell’Ausbildung, in Italia chiamato “Apprendistato Duale” anche se poco conosciuto. In pratica, l’azienda assume un giovane a partire dai 16 anni e ne garantisce sia formazione con corsi di specializzazione o Hochschulen (una specie di nostri ITS) sia la pratica in azienda con successivo inserimento con contratto a tempo indeterminato.
Le opportunità sono tante dalla GDO, al Retail, alla meccatronica fino alle società di consulenza (in questo sito, eventualmente aiutandosi con un traduttore, se ne trovano tantissime). In questa maniera la persone incontrano subito una reale prima esperienza di lavoro, non rinunciando ad un titolo di studio riconosciuto.
I lati negativi di questa formula? Come mi racconta una mia follower in DM su Instagram, non avere adeguato supporto alla scelta. Questo fa sì che la persona cambi diverse volte strada prima di raggiungere una stabilità: però lo fa sempre con un contratto alle spalle e non con uno stage.
Che succede in Austria?
Stage che, per esempio in Austria, sono spesso equiparati a contratti di lavoro. Come mi racconta Alice, italiana che lavora attualmente per una multinazionale a Vienna: «La maggior parte degli stage abbiamo dei veri e propri contratti di lavoro a tempo determinato. Per esempio io, tra un internship e l’altro ho avuto la possibilità di fare richiesta di disoccupazione prima di trovare un altro lavoro. Nel mio caso ci ho messo un mese e mezzo in cui ho potuto pagare l’affitto».
Insomma un sistema dove il governo ti dà accesso a welfare e orientamento al lavoro in modo da renderti autonomo e non pesare sulle casse statali o sulla famiglia di origine. Se ci pensiamo, infatti, in Italia sono proprio le famiglie il vero ammortizzatore sociale in grado di garantire cura, assistenza e sostegno alle fasce più deboli o non ancora autonome.
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Con l’aumentare del costo della vita, questo crea sempre più evidenti differenze di possibilità. Come il caso di Milano, dove in città una stanza singola mediamente non va sotto i 600 euro ma uno stage può anche non superare i 500 euro (minimo garantito dalla regione per gli stage extracurriculari, mentre per quelli curriculari, ovvero a completamento di un percorso di studi, non esiste rimborso spese minimo garantito).
Poter accedere ad una primissima opportunità lavorativa dopo gli studi tramite stage, ormai porta d’ingresso obbligatoria al lavoro, vuol dire avere una famiglia che ci supporti e ci assicuri il mantenimento. Questa condizione rende le opportunità professionali superiori, che effettivamente Milano offre, appannaggio di chi può permetterselo.
Può chi può farcela. Chi non può, si arrangi o faccia la fila per avere un sussidio statale. Le storie di chi dal nulla diventa dirigente sono ormai quasi solo appannaggio della storia degli anni 60 del XX secolo. Attualmente è più palese che le politiche degli ultimi anni, più di combattere la disoccupazione offrendo lavoro, mirano a prendere voti, offrendo promesse e sussidi.
Danimarca e Svezia modelli da imitare?
E poi ci sono Danimarca e Svezia che mirano a rendere autonomi i propri cittadini fin da giovanissimi, Paesi che offrono a tutti i residenti nella UE la possibilità di frequentare gratis l’Università con molti corsi in inglese e libri di testo disponibili in biblioteca. Non solo: lo Stato mette a disposizione un sussidio per chi decide di vivere lontano dalla famiglia per tutti i cittadini svedesi e per chi lavora almeno 32 ore, nel caso di cittadini UE.
In Danimarca, il sussidio chiamato con la sigla SU, copre fino a 800 euro ed è erogato a chi lavora almeno 10 ore a settimana. Come mi racconta Cristina, che da Perugia studia a Roskilde (che ho intervistato qui), tra lavoro part-time e tra SU, una persona riesce a vivere anche senza l’aiuto dei genitori.
Problematico potrebbe essere trovare un affitto, specie in una città come Copenaghen che è il 12% più cara di Milano , ma Cristina consiglia di far domanda con molto anticipo ai dormitori. Ritornando a Federico e alla sua esperienza nei Paesi Bassi, mi racconta che le Università hanno spesso ottimi ranking internazionali, come per esempio UvA per Art & Humanities e costano circa 2000 euro l’anno per i cittadini UE. Nonostante si debba pagare per frequentare, lo status di studente dà accesso a molte agevolazioni. Come per esempio:
- Se vivi in uno spazio indipendente con bagno e il tuo affitto non supera una certa soglia, con redditi sotto i 36mila euro annui, puoi avere il rent allowance, circa 100-300 euro al mese. La misura si applica a tutti, anche non studenti.
- Sempre sotto un certo reddito, puoi chiedere l’healthcare allowance, che può arrivare a 120-130 euro al mese, contributo che serve per pagare l’assicurazione sanitaria, obbligatoria se lavori nei Paesi Bassi.
- I cittadini UE che studiano e lavorano almeno 32h al mese possono avere accesso allo student finance che offre un basic grant di circa 470 euro standard.
- Lo student finance si accompagna al travel productcon consente di viaggiare gratis in tutto il Paese su tutti i mezzi nei giorni feriali o festivi.
I risultati di tali misure? Lo dimostrano le statistiche Eurostat: i Paesi che sostengono attivamente con misure di welfare chi studia sono quelle ad avere il maggior numero di persone laureate.
In Italia qualcosa si muove
E in Italia, dove i laureati totali non superano il 35% della popolazione? E’ recente la notizia del neorettore dell’Università Bocconi, Francesco Billari, di sostenere attraverso la manovra “Bocconi4Access to Education” almeno un terzo degli studenti attraverso una borsa di studio. «Il costo della vita e i pregiudizi non devono scoraggiare le famiglie. Chiunque deve poter tentare il test di ammissione», afferma il rettore. Un’affermazione che, potremo solo vedere in futuro, come potrà aiutare coloro che scelgono di studiare nella città con il potere di acquisto più basso d’Italia.