Nel nostro longform domenicale Giovanna Cosenza ci accompagna in un viaggio alla scoperta di ciò che cercano le organizzazioni e di quel capitale umano che esce dai percorsi accademici umanistici. Scardinando pregiudizi e luoghi comuni
Come abbiamo visto, è tempo di sfatare il pregiudizio sugli studi umanistici, secondo il quale chi si laurea in questo settore ha difficoltà a trovare un lavoro stabile, coerente con ciò che ha studiato e ben remunerato. Non è affatto così per chi completa il percorso umanistico con competenze digitali, cosa che sempre più spesso si fa all’estero, specie negli Stati Uniti e in nord Europa. In Italia purtroppo si fa ancora troppo poco, ma le opportunità ci sono anche da noi. Resta da diffondere – perché gli stereotipi sono duri a morire – la consapevolezza su quanto possa essere fruttuosa, in termini di valorizzazione professionale e persino di remunerazione, la combinazione fra competenze umanistiche e digitali. E allora facciamo un altro passo avanti.
L’importanza delle soft skill
Di solito si fa risalire il concetto di soft skill a un documento dell’Organizzazione mondiale della sanità pubblicato nel 1993, in cui si parlava di “life skills” e si mostrava come fossero cruciali non solo per il lavoro, ma per le relazioni e il benessere individuale. Per la vita insomma. Le capacità di cui parlava l’OMS erano dieci: prendere decisioni, risolvere problemi, pensare in modo creativo, sviluppare il pensiero critico, comunicare in modo efficace, costruire relazioni interpersonali, sviluppare una buona consapevolezza di sé, provare empatia, saper gestire le emozioni e contenere lo stress. Da allora, le liste di soft skill (in italiano “competenze trasversali”) si sono moltiplicate e la loro caratterizzazione cambia a seconda del contesto (accademico, aziendale, pubblico, privato) e della teoria di riferimento (pedagogica, psicologica, sociologica). Su un punto tutte le definizioni sembrano convergere: le soft skill sono ciò che non è incluso nelle hard skill, dove queste sono le competenze tecnico-scientifiche cosiddette STEM (Science, Technology, Engineering, and Mathematics). È chiara l’ambivalenza che ricorre nella distinzione fra soft e hard skill: anche quando, con le migliori intenzioni, si dice che le soft skill sono fondamentali, in realtà si caratterizzano in modo impreciso e si definiscono per esclusione rispetto alle competenze tecnico-scientifiche, che restano l’unica cosa chiara e solida, “hard” appunto.
Come si imparano le soft skill?
Nonostante la confusione, negli ultimi dieci anni l’attenzione per le soft skill da parte di chi seleziona il personale per le aziende è cresciuta in tutti i settori professionali, fino a diventare, anche in Italia, quasi un tormentone. Ormai chiunque si candidi a una posizione si sente in dovere di autocelebrarsi, nel proprio curriculum, come capace di quasi tutto: creatività, leadership, lavoro di squadra, pensiero critico, e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia, un conto è dichiararsi abili in questo e quello, un altro è esserlo davvero. Ma come si fa ad acquisire le soft skill? E come si certificano? Anche le fonti più accreditate, come il Manuale utente per laureati e studenti di Almalaurea e il sito dell’Invalsi, dichiarano che le soft skill non si imparano a scuola né in università, ma si acquisiscono un po’ alla volta con l’esperienza, nella vita di tutti i giorni. Perciò non esistono attestati formali sulla presenza di questa o quella soft skill e le stesse fonti invitano all’impegno personale, anzitutto nell’acquisire ciascuna capacità e poi nel valutare se è stata raggiunta e fino a che punto. Si fa appello al buon senso, insomma, alla capacità di autovalutazione e all’onesta nel redigere il curriculum.
La sorpresa di Google
Nel 2009 Google avviò una ricerca denominata Project Oxygen, mirata ad analizzare tutti i dati sulle assunzioni, i licenziamenti e le promozioni, accumulati fin dalla fondazione nel 1998. Da sempre, Google aveva impostato i suoi protocolli di assunzione per selezionare i laureati in informatica usciti con i voti più alti dalle migliori università scientifiche. Fino ad allora, cioè, la cultura aziendale era centrata sulla valorizzazione dell’informatica e, più in generale, delle materie STEM, rispecchiando in questo la mentalità dei due fondatori Sergey Brin e Larry Page, entrambi brillanti informatici. I risultati più interessanti della ricerca emersero nel 2013 e furono spiazzanti: tra le otto qualità più importanti dei migliori dipendenti di Google, le competenze informatiche erano all’ultimo posto. Viceversa, le sette caratteristiche principali del miglior rendimento in azienda erano tutte soft skill: saper comunicare e ascoltare, essere capace di mettersi dal punto di vista degli altri, specie se diverso dal proprio, provare empatia verso le/i colleghe/i, avere doti di pensiero critico, saper risolvere problemi, creare collegamenti tra idee complesse, avere buone capacità di coaching (questo per le posizioni manageriali).
La lezione di Google
Morale della favola: chi eccelleva in Google pareva farlo nonostante la (e non grazie alla) formazione tecnica. Come reagì l’azienda? Dopo aver coinvolto antropologi ed etnografi per ragionare con metodologie diverse sui risultati di Project Oxygen, modificò le pratiche e gli algoritmi di selezione del personale, per includere laureate e laureati in materie umanistiche, artisti e persino gli MBA, nei cui confronti fino ad allora Brin e Page avevano sempre avuto pregiudizi negativi.
E qui da noi? In Italia gli stereotipi sulle materie umanistiche sono ancora forti. A questi si aggiunge l’ambivalenza della distinzione fra soft e hard skill: le prime vaghe, confuse, affidate al buon senso, le seconde serie e “dure”, affidate alle lauree tecnico-scientifiche. Perciò il coro è unanime: ragazze e ragazzi, studiate STEM per trovare lavoro presto e bene. In realtà, chi studia STEM, ma non ha soft skill, magari trova lavoro presto, ma non prende chissà quale stipendio, come mostra Almalaurea, e non fa chissà quale carriera, come Google insegna. Certo, anche chi fa studi umanistici senza integrarli con competenze digitali ha una vita difficile. Ci torneremo.