Abbiamo intervistato Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, dove si studiano le best practice
Sono tante le aziende che in queste ore hanno chiesto ai propri dipendenti e collaboratori di restare a casa, accogliendo quanto politica e medici suggeriscono – giustamente – per contrastare la diffusione del coronavirus. Così città come Milano si sono svuotate e, magari per la prima volta, i professionisti sperimentano il salotto o la cucina come nuovo ufficio. Se è vero che il Covid 19 fa paura, il periodo che molti si accingono a vivere può dimostrare le potenzialità e i benefici del cosiddetto lavoro da casa. «Quella che stiamo vivendo è una mega esperienza di smart working e le aziende sono costrette ad adeguarsi. Speriamo però che queste pratiche non vengano intese soltanto come emergenziali e che dopo la fine di questo periodo molti imprenditori si convincano dell’utilità dello smart working». Abbiamo intervistato Fiorella Crespi, Direttrice dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, per fare il punto su un metodo di lavoro di cui tutti stanno parlando.
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Smart workers in Italia
In queste ore, proprio mentre tutta la politica e la scienza sono al lavoro per arginare il coronavirus, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale un decreto attuativo che dà la possibilità alle aziende di attivare lo smart working, senza adempimenti di legge. Stando ai numeri dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, i cosiddetti smart workers finora registrati in Italia sono 570mila su un totale di 23 milioni di lavoratori. «Si tratta evidentemente di una piccola parte – ha spiegato la Direttrice Crespi – Ma lo smart working non va confuso con il semplice lavoro da casa: serve un cambio di approccio manageriale che non guardi alla presenza in ufficio come condizione necessaria, ma privilegi piuttosto il risultato».
Come funziona in Italia
Al di là delle tante aziende forzate allo smart working per questo periodo d’emergenza dovuto alla diffusione del coronavirus, la legislazione in Italia sembra non particolarmente premiante per le realtà e, soprattutto, i lavoratori che fanno ricorso allo smart working. Nella legge di Bilancio 2019 si era stabilito, per quando riguarda l’accesso al lavoro agile, di dar priorità alle professioniste nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo obbligatorio di maternità e ai lavoratori con figli disabili. Tutto questo, come spiegato da un report dell’Osservatorio, «rischia di limitare il fenomeno e potenzialmente “ghettizzare” coloro che utilizzano lo smart working o ne fanno richiesta».
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Per quanto riguarda il settore pubblico la Legge Madia aveva introdotto un aumento della fetta di lavoratori dipendenti che possono accedere allo smart working in un ente (dal 10 al 30%). Ma ancora una volta, come sottolinea l’Osservatorio, la misura non tiene conto del quadro complessivo: lo smart working, per essere davvero efficace e produttivo, deve esser accompagnato da investimenti sul digitale.
Le best practice
Finora in Italia le grandi aziende e le multinazionali hanno fatto da apripista per sperimentare prima e strutturare poi lo smart working tra dipendenti e collaboratori. Secondo i dati dell’Osservatorio è una politica aziendale prevista nel 58% delle grandi imprese. Ma quali sono le best practice? Il Gruppo Maire Tecnimont è stato tra i premiti dall’Osservatorio del Politecnico. «Lo smart working – ha dichiarato Pierroberto Folgiero, l’AD – aiuta le nostre persone a lavorare ‘nel posto giusto’, per ottenere i risultati attesi: sia esso un cantiere, una fabbrica di componenti presso un fornitore o una scrivania in uno spazio coworking. È un cambiamento culturale che prevede un ripensamento e un’ottimizzazione degli spazi».
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In Italia anche il Gruppo Bayer ha fatto ricorso allo smart working, dando la possibilità ai dipendenti di lavorare da remoto cinque giorni al mese, come si legge sul sito dell’Osservatorio. I benefici in termini di produttività e di miglioramento nei processi organizzativi sono stati riscontrati dall’azienda. «Anche il mondo delle assicurazioni è stato tra i primi a muoversi su questo terreno – ha aggiunto la Direttrice Crespi – come Axa, per esempio», che ha dato la possibilità di lavorare fino a 2 giorni a settimana da remoto, ricevendo l’apprezzamento dal 97% di lavoratori. «Ma non conta la dimensione dell’azienda: qualsiasi impresa può sfruttare lo smart working».
© Foto di Polina Zimmerman da Pexels
Se è vero che il lavoro agile riguarda soprattutto le aziende private, anche le Pubbliche Amministrazioni si sono mosse per sperimentarlo. La Regione Liguria, per esempio, è un caso studio interessante nei giorni in cui il mondo dell’impresa fa i conti con il coronavirus: dopo la tragedia del Ponte Morandi, il 14 agosto 2018, la Giunta ha deciso di decongestionare il traffico a nord e a est del ponte dando la possibilità ai dipendenti regionali di rimanere a casa due giorni a settimana. Grazie a questa sperimentazione è stato firmato un protocollo di intesa per capire come far nascere altre iniziative simili. Anche il mondo delle banche è attivo sullo smart working, con istituti come Intesa Sanpaolo e UniCredit. Sempre guardando alle grandi aziende, L’Oreal Italia ha stabilito nel contratto dei propri dipendenti la possibilità di usufruire dello smart working per quattro giorni al mese.