Massimo Sestini è un fotoreporter di fama internazionale senza studi prestigiosi alle spalle. «La mia è la scuola dei free lance, della pagnotta da portare a casa. È la scuola di un vecchio giornalismo fatto per strada, dei cronisti e dei fotografi di una volta» afferma Sestini. La scuola della «pagnotta» lo ha reso maestro indiscusso della fotografia aerea e acrobatica, tra i primi a riconoscere il potere di una immagine realizzata da una prospettiva inedita.

Il 7 giugno del 2014, un gommone carico di 227 migranti al largo delle coste libiche è tratto in salvo dalla fregata Bergamini della Marina Militare italiana. L’operazione salva-vite è organizzata dal governo italiano dopo la prima strage in mare al largo di Lampedusa. Sestini, appeso fuori da un elicottero, fotografa 227 frammenti di umanità in cerca di rifugio. Una sinfonia di colori stretti uno accanto all’altro. Una foto che gli vale il prestigioso World Press Photo Award.

Dieci anni dopo, il 5 aprile del 2024, diventa virale la copertina di Sette, il settimanale del Corriere della Sera. In primo piano la campionessa Sofia Goggia. Titolo della cover story «Cadere e sognare il riscatto. Ho paura, ma rischierò ancora». La viralità della foto scattata da Sestini non è dovuta alla bellezza dello scatto, piuttosto alle sue imperfezioni. La campionessa è stesa sul letto. Accanto a lei il suo cane Belle. È coperta solo da un lenzuolo bianco, con braccia e piedi scoperti. In primo piano due piedi sinistri e un braccio troppo lungo. Fra i primi ad accorgersi dei dettagli sbagliati proprio la vincitrice di 4 Coppe del Mondo di specialità, che su Instagram commenta la cover con un video nel quale scherza con la signora Carla al supermercato.

Seguono, nello stesso giorno, le scuse del fotografo. Bene quindi la velocità della risposta dal momento che le buone scuse sono tempestive. Il testo però è un capolavoro da non replicare. «Mi è accaduto un incidente con la copertina di Sette su Sofia Goggia. Il mio postproducer ha deciso di sostituire un piede che aveva una posizione meno bella con un altro, a mia insaputa, e ha sbagliato. Purtroppo avrei dovuto verificare ogni singolo fotogramma ma stavo partendo per la Terra del Fuoco, dove mi sono imbarcato sull’Amerigo Vespucci, un viaggio di due settimane che non mi ha dato modo di controllare il suo lavoro con l’attenzione necessaria».

In queste poche righe c’è tutta la cultura del biasimo e della colpa: si prende da subito le distanze valutando l’accaduto come un incidente, un avvenimento inatteso a cui si assiste passivamente perché esterno al proprio controllo e alla propria volontà. Si punta il dito verso il responsabile, il postproducer, che a sua insaputa ha preso una decisione sbagliata in totale autonomia. E quando sembra assumersi una flebile responsabilità, ecco che la frase fa emergere due bias – il bias del pavone (esaltiamo i successi e nascondiamo i nostri errori) e il self-serving bias (attribuiamo i nostri successi a fattori interni – abilità, sforzo, intelligenza – e i nostri fallimenti a fattori esterni, agli altri, alla sfortuna, alla difficoltà del compito o alle circostanze impreviste): «Mi scuso per questo errore con i lettori, con la redazione e con Sofia Goggia», le parole di chiusura del messaggio. Le scuse finali, rispetto al testo, suonano ambigue. Non sono una assunzione di responsabilità personale perché a fare un errore non è stato lui.
Non tutti gli errori (e non tutte le scuse) sono uguali
Ci sono errori che nascono da azioni inintenzionali, frutto della casualità, risultato di cause evitabili o imprevedibili. E poi ci sono le violazioni, deviazioni deliberate rispetto a regole e procedure che vengono compiute per accelerare un processo reputato troppo lungo; per risparmiare tempo e fatica a danno della qualità e della sicurezza; per trarre profitto a scapito del benessere o dei diritti dei consumatori. Come il caso Volkswagen con lo scandalo Dieselgate, o quello di Johnson & Johnson con lo scandalo amianto nel borotalco.
E poi ci sono i social epic fail, errori comunicativi dovuti a un messaggio offensivo contenuto in un video promozionale, in una intervista, in una frase o anche in un solo hashtag diffuso tramite canali social. Il messaggio riguarda argomenti quali la religione, la razza, il sesso, la salute e la politica che possono urtare la sensibilità della maggioranza o risultare offensivi o denigratori per gli utenti. In alcuni casi ci sono aziende che non hanno imparato dai propri errori e altre che non hanno imparato da quelli altrui (le immagini che seguono sono esemplificative).

In molti casi resta il dubbio che non si tratti di errori inintenzionali, di sviste compiute in buona fede per la fretta o la poca attenzione. Il messaggio appare essere l’espressione autentica della filosofia dell’azienda, del pensiero del fondatore o il punto di vista condiviso del management.
Gli archivi della comunicazione sono pieni di episodi di scuse mancate. Una ricerca condotta nel 2017, ha mostrato come in quell’anno Facebook, Mercedes Benz e United Airlines avessero pronunciato oltre 2.000 parole in merito alle loro trasgressioni e ai loro errori. La parola “scusa” tuttavia non è apparsa neanche una volta.
Se in una era pre social gli errori rimanevano circoscritti geograficamente e potevano essere nascosti all’opinione pubblica, oggi una singola lamentela può diventare virale e influire sulla percezione di milioni di clienti di fatto e potenziali. È il caso, ad esempio, di Barilla.
La cosa più difficile non è chiedere scusa, ma accettarle
Tutto ha inizio mercoledì 25 settembre 2013. Il presidente della Barilla, Guido Barilla, partecipa alla trasmissione radiofonica La Zanzara. A domanda del conduttore, Cruciani, sulle dichiarazioni di Laura Boldrini in merito al ruolo della donna nella pubblicità italiana, Barilla risponde «Sono per la famiglia tradizionale, non realizzerò mai uno spot con i gay».
Neanche il tempo di finire la frase che su Twitter (oggi X), #boicottabarilla entra tra i trend. Barilla prosegue su un percorso che non immagina essere molto scivoloso: «Per noi il concetto di famiglia è sacrale, rimane uno dei valori fondamentali dell’azienda. Non faremo pubblicità con omosessuali, perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri».
A fine intervista, le sue parole fanno il giro del mondo. La pagina ufficiale dell’azienda su Facebook si riempie di commenti negativi. Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione europea, twitta: «Signor Barilla, molti dei miei migliori amici compravano la sua pasta». L’Harvard University Dining Services dichiara che non sarà più servita la pasta Barilla nelle sale da pranzo di Harvard. Walmart boicotta prodotto.
Il giorno dopo, alle 14.30, Barilla in una nota si scusa «se le mie parole hanno generato fraintendimenti o polemiche, o se hanno urtato la sensibilità di alcune persone. Nell’intervista volevo semplicemente sottolineare la centralità del ruolo della donna all’interno della famiglia». Quel comunicato passò ai più inosservato perché contenuto nell’area Press del sito dell’azienda. La scelta poi di usare il «se» come se la sua dichiarazione lasciasse margini interpretativi non aiutò a placare le polemiche.

Le aziende concorrenti di Barilla colgono la palla al balzo. Sfruttando l’indignazione generale, pubblicano post in cui si dichiarano chiaramente aperti a un concetto di famiglia più inclusiva. Dopo qualche ora compare un comunicato di scuse ufficiali sui canali social del Brand. Ma servì a poco, la polemica si era trasformata in una crisi reputazionale. In quell’anno Barilla perde 21 posizioni nella classifica annuale del Reputation Institute.
La ricetta di Barilla per la ripresa
Facciamo un salto di 2 anni. Nel 2015, Barilla si posiziona tra le aziende con il Corporate Equality Index più elevato. Questo indice è stilato dalla fondazione Human Right Campaign, un’associazione per i diritti degli omosessuali che stila annualmente una graduatoria basata sulle politiche interne ed esterne aziendali in questo campo.
Barilla passa, in una manciata di mesi da brand boigottato a modello da seguire. Come è arrivata a questo risultato? All’indomani delle tiepide scuse scritte via social, Guido Barilla decide di metterci la faccia e pubblica un video dal titolo Guido Barilla si scusa. Nel video, Barilla è in primo piano e guarda dritto in camera. In meno di 39 secondi si scusa «per avere colpito la sensibilità di molte persone in tutto il mondo». Si dichiara colpito e addolorato per «le tantissime reazioni in tutto il mondo alle mie parole». Riconosce «che sul dibattito riguardante l’evoluzione della famiglia ha molto da imparare».
E poi chiude con una promessa «nelle prossime settimane mi impegno a incontrare gli esponenti delle associazioni che meglio rappresentano l’evoluzione della famiglia, tra i quali coloro che ho offeso con le mie parole». Come vi aspettate abbiano reagito clienti e detrattori? Il danno di credibilità è stato superato grazie a poche parole che sono state percepite come sincere dai consumatori e dagli attivisti. Barilla non sembrava recitasse un copione. Visibilmente provato, il suo sguardo tradiva l’emozione mentre la sua voce tremante pronunciava parole di scuse che è raro ascoltare.
Ma soprattutto, alle parole sono seguiti i fatti. A distanza di un anno dal quel video, il Presidente dirà «sono orgoglioso di dire che, come conseguenza di queste discussioni, abbiamo tutti imparato molto sulla vera definizione e significato di famiglia e nell’ultimo anno abbiamo lavorato duro perché ciò si riflettesse nella nostra organizzazione». Alle scuse infatti seguì un costoso piano per trasformare un’azienda alimentare bigotta e retrograda in un alleato globale dei diritti civili. Furono reclutati alcuni consulenti LGBTQ, inseriti piani formativi interni, estese le tutele sanitarie ai propri lavoratori transgender e alle loro famiglie, donati soldi a cause pro gay e ad una associazione contro il bullismo. David Mixner, rispettato attivista LGBT dichiarò «è lo sforzo più completo per rimediare a una gaffe al quale io abbia mai preso parte».

Le scuse iniziano con la resa e finiscono con l’integrità
Porgere le proprie scuse a seguito di un errore è infrequente perché ci fa sentire in debito con la controparte. Percepiamo inoltre il disagio della vulnerabilità a cui quell’atto linguistico ci espone. Non dire nulla però ci espone a un rischio reputazionale e relazionale. Scrive K. Blanchard «Il fallimento di molti leader inizia quando non sono disposti ad ammettere a sé stessi di aver fatto qualcosa di sbagliato». Si nega di aver fatto qualcosa o peggio non si comprende di aver commesso un errore.
Sovente è invece il caso il cui ci si scusa ma in maniera raffazzonata o, ancora peggio, assumendo un atteggiamento difensivo, aggressivo o con una convinzione da condannato a morte al punto di peggiorare le cose.
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Chiedere scusa è un’arte con alcune regole da seguire. Prima di chiedere scusa occorre fare i conti con la realtà. Comprendere l’errore e perché è successo quello che è successo. Focalizzarsi sul danno percepito dagli altri, non su chi ha ragione o torto. Raccontare con onestà quello che è successo non sminuendo commenti e critiche. Chiudere scusa in modo sincero condividendo i propri sentimenti.
Dare un segno concreto dell’importanza attribuita all’accaduto a tal punto da cambiare il comportamento. Le parole da sole non sono sufficienti, senza un impegno concreto a cambiare. Essere umili e avere coraggio sono due talenti che impediscono a un errore di trasformarsi in un fallimento.