Ivana Pais, docente all’Università Cattolica, racconta come cambia l’occupazione femminile tra digitalizzazione, lavoro agile e stereotipi culturali.
Come sta cambiando il lavoro in Italia tra pandemia, smartworking, automazione e sostenibilità? Nella società liquida – definizione sociologica utilizzata spesso a sproposito come sinonimo di precarietà – i modelli occupazionali stanno cambiando e la digitalizzazione entra nelle aziende modificando i flussi di lavoro. Le donne sono una risorsa fondamentale per un’economia sana e competitiva, ma permangono ancora troppi ostacoli sul mercato del lavoro, che vanno individuati e rimossi.
Sono temi sensibili sui quali StartupItalia è intervenuta con Unstoppable Women, il progetto nato a partire da una lista di 150 donne da seguire nell’innovazione in Italia, oggi divenute più di mille: fondatrici, manager, attiviste, ricercatrici che si distinguono per quello che fanno. Nel tempo Unstoppable Women si è trasformato fino a diventare una rubrica editoriale, e una community, grazie a workshop, incontri e scambi di idee.
Ora vogliamo coinvolgere la nostra community, e tutti i nostri lettori, con un sondaggio che abbiamo pensato per fotografare la situazione attuale. Partendo dai dati: a dicembre 2021 hanno perso il lavoro 99mila donne e 2mila uomini, una sproporzione ormai consolidata. Nel 2020 ogni 4 lavoratori disoccupati 3 sono donne, e il tasso di occupazione è di nuovo crollato al 48,6% (dati Istat).
Ne abbiamo parlato con Ivana Pais, Professoressa ordinaria di Sociologia economica nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano.
Professoressa, i numeri sull’occupazione femminile, in Italia, sono deludenti. Qual è la sua analisi?
“I numeri sono deludenti, e per quanto riguarda il peggioramento dei dati durante la pandemia, il lavoro da remoto in smart working non ha valorizzato il lavoro delle donne. Chiuse dentro le mura domestiche le donne, oltre al lavoro, si sono fatte carico della cura dei figli e della famiglia. Ma il lavoro agile è nato proprio per bilanciare queste anomalie, in risposta alle esigenze di conciliazione, per valorizzare il lavoro femminile e riequilibrare le mansioni familiari. Invece le donne durante la pandemia hanno sofferto e faticato persino di più di prima. Il punto è sempre il solito: un enorme problema culturale da affrontare”.
Perciò il lavoro agile non è stato efficace?
“Non dobbiamo commettere l’errore di ritenere lo smart working, durante la pandemia, un test affidabile e rigoroso per verificarne l’effettiva efficacia. Le condizioni nelle quali si è svolto sono state troppo particolari, con scarsi strumenti e una condizione psicologica molto stressante, soprattutto per le donne”.
Ci sono differenze per classi sociali e livello culturale?
“Purtroppo, certi fenomeni sono abbastanza trasversali. Basti pensare che durante i lockdown la quantità di pubblicazioni accademiche elaborate e scritte da docenti donne, si è ridotta tantissimo. Questo significa che anche alle donne con livelli culturali molto alti, spesso si applicano gli stessi schemi e squilibri”.
Fuori dai confini domestici, come vanno le cose?
“Rispondo con un esempio: nei vari studi fatti sugli asili nido emerge chiaramente che ancora oggi non vengono percepiti come una concreta e importante leva formativa, uno spazio funzionale alla crescita dei figli. Ma sono visti come quei luoghi dove semplicemente mandare i figli, quando la mamma o i nonni non sono disponibili. Ancora una volta le donne sono al centro e a loro, nell’immaginario collettivo, spettano tutte le cure e le attenzioni educative per i figli. Sempre restando in ambito scolastico vedo ancora nei testi scolastici delle riproposizioni di stereotipi di genere evidentissimi, che vanno superati”.
Allora da dove ripartire? Da quali presupposti?
“Restando sullo smart working, nonostante un suo utilizzo non ottimale, la domanda resta molto forte e questo ci spinge a credere che con il tempo si possa arrivare a un riequilibrio dei carichi di cura domestici, conciliando meglio la vita personale con quella professionale. Più in generale dobbiamo guardare alla trasformazione digitale e alle nuove professioni con ottimismo, perché comportano grandi aperture e opportunità, sebbene servano alcune cautele”.
Vede nuove problematiche provocate dalla digitalizzazione delle professioni e dalla riorganizzazione del mondo del lavoro?
“Digitale significa apertura, ma anche il rischio di veder riprodotte vecchie segregazioni. Pensiamo al gaming: perché è percepito come una attività esclusivamente maschile? Eppure, donne che giocano online ce ne sono. Quando le donne promuovono campagne di crowdfunding proprio sul gaming, sono finanziate soprattutto da altre donne perché vogliono migliorare un servizio che ancora non c’è, con giochi più vicini alle sensibilità femminili, rivolti alle giocatrici. Ma ancora una volta ci imbattiamo in un problema culturale: le donne hanno meno tempo libero e utilizzarlo in attività tipiche del mondo maschile come il gaming, non è considerato socialmente accettabile”.
Le donne come giudicano sé stesse?
“Con molta moderazione, non riconoscendo quasi mai le eccellenze, che invece le contraddistinguono. Lo vediamo chiaramente nei test di autovalutazione: gli uomini polarizzano i giudizi, reputandosi molto bravi in determinate competenze, e scadenti in altre. Le donne, invece, si posizionano su giudizi intermedi, sono molto più misurate nella valutazione delle proprie qualità e raramente affermano di essere eccellenti in qualcosa. Questo è un limite di auto percezione sul quale bisogna lavorare”.
Lei è favorevole ai meccanismi compensativi delle cosiddette “quote rosa”?
“Le quote non sono la soluzione, ma possono rappresentare una soluzione temporanea per aiutarci a raggiungere una soglia minima, la massa critica di donne presenti nelle varie industry, nei luoghi di lavoro con ruoli decisionali. Una volta raggiunta questa soglia, si attiveranno poi dei meccanismi virtuosi spontaneamente. In tal modo potremmo attenuare le conseguenze di alcuni bias cognitivi che portano i manager uomini a selezionare preferibilmente altri uomini, nei posti di lavoro; questo avviene perché tendiamo ad apprezzare e favorire coloro che riconosciamo come simili”.
L’impatto della tecnologia sul lavoro comporta importanti trasformazioni, pensiamo alle economie delle piattaforme (gig economy, sharing economy). Cosa ne pensa, in riferimento alle donne?
“Le piattaforme digitali stanno cambiando il modo in cui ci relazioniamo e il modo in cui scambiamo beni e servizi. Ma rischiamo di tornare anche in questo caso alla riproposizione degli stereotipi, e la governance delle piattaforme va ripensata. L’idea che viene incorporata è che il lavoratore guadagna per quello che fa, ma in questo modo, senza distinzioni o bilanciamenti, si scaricano sulla singola persona dei costi che andrebbero condivisi collettivamente. Pensiamo alla gravidanza: le donne sono penalizzate nei meccanismi di selezione e di assegnazione dei punteggi nelle piattaforme, con logiche selettive che credevamo superate. Ricordiamoci che quando una donna fa un figlio non lo sta facendo da sola, ma è la società intera che dovrebbe farsene carico”.