Salvatore Rossi, già direttore generale della Banca d’Italia e attualmente presidente di TIM, dedica ai lettori di StartupItalia un estratto del suo ultimo libro. Un modo per capire il rapporto del nostro Paese con gli altri, ma anche a scardinare qualche luogo comune
Qual è davvero il posto che occupa l’Italia nel mondo? Nel mondo attuale e in quello che si annuncia nel futuro? Domanda troppo semplicistica per ottenere una risposta secca. Ma, sia pure in modo articolato e a volte dubitativo, alcuni elementi per una risposta si possono mettere in sequenza. Per partire dalla coda dell’analisi affrontata nel mio libro, l’Italia è, sia pure di poco, creditrice netta nei confronti del resto del mondo. Vuol dire che, alla data più recente, la somma di tutti i crediti vantati dagli italiani nei confronti di non italiani, sotto ogni forma (titoli, azioni, partecipazioni, crediti commerciali, prestiti, e così via), è superiore alla somma di tutti i debiti. Un Paese si ritrova nella condizione di creditore netto del resto del mondo se ha una storia passata in cui ciò che ha saputo vendere all’estero ha ecceduto ciò che ha desiderato o ha avuto bisogno di comprare. Il grande storico economico Carlo Cipolla scrisse vari anni fa che gli italiani debbono sempre inventare cose nuove che piacciano e si vendano fuori dai confini1: a quanto pare gli italiani non hanno mai smesso di farlo. È una buona notizia, anche se non decisiva: per esempio, gli Stati Uniti hanno un debito netto immenso col resto del mondo, ma ciò non scalfisce minimamente la loro supremazia economica e tecnologica, oltre che geopolitica e militare. L’Italia è un Paese di taglia media quanto a numerosità della sua popolazione: è venticinquesima al mondo. Inoltre lo spettro per età si va spostando verso le classi più anziane. Ma la sua capacità produttiva, espressa dal valore che nella produzione viene aggiunto dal lavoro e dall’intelligenza umana alle materie di base e a tutti i componenti comprati all’estero, è molto superiore a quanto sarebbe coerente con la sua popolazione: il Paese risale al decimo posto nel mondo. Anche questa è una buona notizia.
Giungono tuttavia subito alcune cattive notizie, in forma di particolarità negative dell’economia italiana nel confronto con altri paesi avanzati. La prima è la speciale difficoltà che l’Italia incontra da anni a far lavorare tutti i suoi cittadini. Il lavoro fra le donne in particolare è molto meno diffuso di quanto non lo sia in altri Paesi, ma anche fra gli uomini la mancanza di un’occupazione è più rilevante che altrove. È un problema assai intricato, che discende sia dalla persistenza nella società di tratti culturali arcaici (vedi la sottoccupazione delle donne), sia da difetti organizzativi del sistema produttivo, sia da insufficienze delle politiche pubbliche del lavoro. Una seconda cattiva notizia è che l’efficienza media della macchina produttiva non è alta, ed è comunque inferiore a quella di molti altri paesi avanzati. Gli economisti chiamano questa variabile «produttività» e la misurano col prodotto del lavoratore medio in una unità di tempo. Ovviamente questa grandezza dipenderà dalle capacità e dall’impegno del lavoratore ma ancor più dalla qualità dei mezzi messi a sua disposizione, dalla tecnologia impiegata e dall’abilità organizzativa dei gestori dell’unità produttiva in cui quel lavoratore è impiegato. Il fatto che il livello corrente della produttività sia in Italia meno alto che in altri paesi è il risultato di una storia venticinquennale di dinamiche divergenti fra l’Italia e gli altri. Quella speciale componente della produttività che dipende da tecnologia e abilità dei manager è addirittura diminuita in Italia in questo arco di tempo. Sulle ragioni dei divari molto è stato detto e scritto. È un fatto importante e preoccupante. Una terza notizia cattiva, o per lo meno una notizia mediocre, è che l’Italia risparmia ancora relativamente poco nel confronto internazionale, nonostante la ripresa degli ultimi anni, tenuto conto della distruzione di risparmio privato operata dal settore pubblico. Per una società che invecchia rapidamente come la nostra non è un bel segnale di prudenza, è un comportamento più da cicala che da formica. Una quarta cattiva notizia è che i mercati finanziari internazionali, cioè i risparmiatori di tutto il mondo (italiani compresi), nutrono da molti anni una fiducia parziale e venata di sospetto nei confronti dello Stato italiano quando emette titoli di debito, al di là di quanto sarebbe giustificato dal livello, pur alto, del debito pubblico. Una quinta cattiva notizia riguarda la composizione delle nostre esportazioni, sia quelle di servizi sia quelle di merci. Riusciamo a vendere all’estero meno servizi sofisticati di altri paesi, servizi come quelli bancari e finanziari per esempio. Fra i beni tangibili, vendiamo relativamente pochi macchinari e dispositivi ad alta tecnologia. Infine – ed è la sesta cattiva notizia – le nostre imprese sono piccole, più piccole di quelle dei paesi con cui ci confrontiamo e competiamo su tutti i mercati. Lo sono nei livelli medi attuali, e sono rimaste ferme nel corso degli ultimi decenni. Anche le imprese più grandi, più di successo, più competitive, quando vengono confrontate con le loro principali concorrenti estere risultano molto più piccole di queste. È un problema? Sì, lo è, soprattutto in un mondo globalizzato e dominato da tecnologie che richiedono la grande dimensione per consentire a un’impresa di ottenere tutti i formidabili guadagni di efficienza che le tecnologie stesse offrono. Anche l’analisi comparata delle grandi imprese che potete leggere nel libro mostra con tutta evidenza il rachitismo del sistema produttivo italiano: le grandi imprese italiane censite dalla classifica della rivista «Forbes» sono molto meno di quelle dei paesi concorrenti; quelle presenti sono comunque più piccole (tanto che stanno più indietro in classifica) e sono prevalentemente finanziarie, essendo peraltro la finanza un settore nel quale l’Italia non brilla per competitività internazionale. Le imprese locomotiva, quelle che consentono al Paese di risalire dal venticinquesimo posto al mondo, che ci spetterebbe per popolazione, al decimo per PIL, sono in larga misura imprese di media dimensione, fuori dalla classifica di «Forbes». Sulle ragioni di quest’anomalia italiana si sono pure versati fiumi d’inchiostro che qui non ripercorreremo. Sta di fatto che essa contribuisce a spiegare la scarsa attitudine delle nostre imprese a essere cacciatrici nella grande giungla mondiale delle acquisizioni di altre imprese. Si dirà: ma il saldo degli investimenti diretti della nostra bilancia dei pagamenti, che dovrebbe registrare questa scarsità esibendo un bel «meno», è praticamente in equilibrio. Sì, ma perché il flusso contrario, quello delle imprese estere che mangiano prede italiane, è altrettanto striminzito, a causa della poca attrattività del contesto normativo, regolamentare, giudiziario, burocratico italiano. Fin qui le cattive notizie, seguite alle due buone con cui abbiamo aperto queste pagine finali. Sei a due, sembrerebbe una partita persa. Parrebbe che le profezie di declino irreversibile dell’economia italiana spesso declamate negli ultimi vent’anni siano destinate ad avverarsi. Tuttavia è lecito farsi venire dei dubbi. La globalizzazione è una delle ragioni per cui avere pochissime grandi imprese non aiuta. La globalizzazione incoraggia le imprese a esplorare nuovi mercati, a ricercare risorse più convenienti anche all’altro capo del mondo, a moltiplicare e intensificare le relazioni internazionali. Tutte cose che riescono ovviamente tanto più facili quanto più grandi già si è. Un caso esemplare è la partecipazione a una Catena globale del valore. Una grande o grandissima impresa è più probabile che sia capofila di una o più di queste catene, fornendo il progetto originario, il coordinamento, curando la vendita finale del prodotto composito col suo marchio, con la sua faccia pubblica. O almeno che occupi una posizione molto prossima a quella di comando. Per questo sono poche le aziende italiane capofila di Catene globali del valore. Ma ora la globalizzazione, le Catene del valore che da essa discendono, stanno cambiando. La notizia della loro morte è «grossolanamente esagerata», per dirla con Mark Twain, ma una trasformazione c’è e ancor più ci sarà, con la probabile formazione di aree geografiche più ristrette anche se più omogenee, politicamente e culturalmente, all’interno delle quali le relazioni economiche multilaterali potranno comunque continuare a svilupparsi e anzi si rafforzeranno. Ciò offre all’Italia, con la sua indubbia capacità di invenzione e di commercio, ma anche con le sue imprese di più modeste dimensioni, migliori opportunità. Se poi, come discusso in questo mio Breve racconto dell’Italia nel mondo attraverso i fatti dell’economia, scoppiano conflitti armati locali, com’è spesso accaduto nell’ultimo mezzo secolo, i quali possono avere cause economiche ma sicuramente hanno ripercussioni sugli scambi commerciali, le conseguenze per l’economia di un paese geopoliticamente secondario come l’Italia non sono state e non possono essere esiziali. Serie sì, a volte molto pesanti (come nelle crisi energetiche degli anni Settanta del secolo scorso), ma non tali da mettere a repentaglio la stessa vita economica. Da questo punto di vista, i cambiamenti che possono determinarsi nel mondo dovrebbero essere almeno neutrali per l’economia italiana. A meno che non sfocino in un conflitto globale, che però non potrebbe che essere nucleare. E in tal caso saremmo tutti morti. Il mondo sta cambiando. Come sempre, d’altro canto.
Negli ultimi due secoli i cambiamenti sono avvenuti a velocità crescente e nulla ci fa pensare che rallentino. Dunque ci saranno, saranno tumultuosi, ma in che direzione andranno? Possiamo avanzare delle congetture, basate sulle tendenze in atto. Proviamo a disegnare uno scenario positivo, esercizio inconsueto nel flusso ininterrotto di scenari negativi o catastrofici che ci vengono offerti da più parti.
Uno scenario in cui il mondo impari dalle crisi di inizio secolo a credere meno nelle virtù assolute di una libertà d’intrapresa e di scambio che escluda limiti e regole, senza per questo cadere nell’oscurantismo delle economie centralizzate e comandate da un’oligarchia al governo; a credere meno nelle virtù assolute dell’essere globali, multilaterali, senza per questo cadere nelle strettoie di un mondo parcellizzato in tante piccole (o anche grandi) sovranità; a credere meno nelle virtù assolute di un benessere materiale continuamente crescente e noncurante della salute del pianeta, senza per questo cadere nel pauperismo e nell’integralismo ambientalista. Un mondo più attento a ciò che è bello, a ciò che è sano, a ciò che è autenticamente libero. In un mondo così, il posto dell’economia italiana, che già non è disprezzabile anche se minacciato di declino, può solo avanzare.