Acquistare oggetti, abiti, accessori e altri beni di seconda mano è ormai una moda. Le diffidenze che fino a qualche anno fa resistevano sono ormai superate. E questo grazie a una serie di piattaforme digitali – da Subito.it a Vinted passando per Wallapop o Depop – che hanno trasformato il concetto di vecchio «usato» in «second hand». Con tutte le ricadute in termini di risparmio e sostenibilità. Insomma, per moltissimi è uno stile di vita o almeno una porzione integrante delle proprie scelte quotidiane, nonché un modo per estrarre guadagni da ciò che non ci serve più ma che in passato non avremmo saputo a quale canale affidare in modo semplice e relativamente privo di lungaggini.
Secondo i dati dell’Osservatorio Second Hand Economy condotto da Bva Doxa per Subito (seconda piattaforma di e-commerce con oltre 13 milioni di utenti unici al mese) nel 2022 sono stati 24 milioni gli italiani che si sono rivolti alla compravendita dell’usato, generando un valore di 25 miliardi di euro, teoricamente pari all’ 1,3% del Pil. Un numero che aumenta anno dopo anno. Il canale online, preferito dal 65% dei rispondenti con un volume d’affari di 11,9 milioni di euro (47% del totale), ha contribuito negli ultimi anni alla diffusione di questa forma di economia circolare. Tuttavia, specialmente dopo il triennio pandemico, sono tornati a crescere anche i canali offline come i mercatini o i negozi dell’usato, segno di un ritorno alla normalità e conferma di un mercato solido.
Un’abitudine di moda
Il punto centrale è che il «second hand» per gli italiani non è più una seconda scelta: il 67% di chi acquista, infatti, comincia la sua ricerca proprio dall’usato. Superate, dunque, diffidenze e pregiudizi verso un cambio di percezione della «second hand» che diventa una scelta smart di cui andare fieri e da rivendicare con orgoglio. Anche lo scorso anno, fra le ragioni per scegliere l’usato, troviamo in prima posizione il risparmio (51%), prerequisito base anche se in continua decrescita anno su anno. Al secondo posto perché si ritiene sia un modo intelligente di fare economia sostenibile (44%), seguito dal credere nel riuso degli oggetti (41%), dando quindi il giusto valore alle cose. Al quarto posto l’abitudine (38%), ulteriore segno della normalizzazione di questa tipologia di acquisto.
Fra chi vende il proprio usato, invece, c’è ovviamente al primo posto la necessità di liberarsi da oggetti che non si usano più (76%), per fare spazio e ordine, dando però loro nuova vita, seguita dal desiderio di abbattere gli sprechi (38%) e in terza posizione dal guadagno (36%). Cambiano le abitudini, le esigenze e montano nuove passioni ma si aggiornano anche le versioni dei dispositivi: sono tutte ragioni che ci spingono a vendere online e offline i nostri vecchi oggetti.
I problemi del «second hand»
Ma il «second hand» è sempre cosa buona? «Io acquisto dai mercati dell’usato di provincia da quando ho 17 anni e sono sempre andata fiera dei miei ricchi bottini vintage a pochi euro. Peccato che mia madre non fosse dello stesso avviso e nonostante acquistasse anche lei insieme a me, mi diceva sempre di non raccontare, a chi puntualmente mi chiedeva: “Ma è bellissimo! dove lo hai preso?” che veniva dai mercati dell’usato». Così ci racconta Alice Pomiato, influencer e creatrice di contenuti sulla sostenibilità e consulente nello stesso ambito, seguita da oltre 52mila persone su Instagram.
«Non era una cosa da sbandierare. Io invece ho sempre sostenuto che trovare pezzi unici tra tanti, e pure a prezzi stracciati, è una vera e propria arte, oltre che una passione – prosegue Pomiato – i tempi sono cambiati e le persone hanno normalizzato l’acquisto di beni di seconda mano per tanti motivi: i vestiti vintage sanno essere molto cool, i mobili da cambiare si possono rivendere anziché prendersi del tempo per portarli nell’isola ecologica, poter rivendere qualcosa mi permette di tornare parzialmente di un investimento iniziale, e molto altro. Bene o male, difficilmente conosciamo la provenienza degli oggetti e/o dobbiamo raccontarla/giustificarla. Oggi è semplice e economicamente accessibile accedere ai luoghi fisici e digitali dove possiamo comprare e rivendere. C’è anche chi ci ha fatto un vero e proprio lavoro creando negozi online che vendono usato su Vinted. Tutto questo non può che giovare e indirettamente avvicinare ai temi della circolarità e sostenibilità».
I problemi del second hand
La compravendita dell’usato non è però tutta uguale. Ad esempio: mantenere in circolazione un’auto usata ma più inquinante non è meglio di acquistarne una nuova magari ibrida o elettrica. E inviare una t-shirt usata dall’altra parte d’Europa per pochi euro di guadagno non ha un peso ambientale magari superiore a quello della sua produzione? «Generalmente “usalo finché non funziona più” è una regola che vale per qualsiasi settore. Dimettere e rottamare un’auto funzionante, in buone condizioni, che non ha fatto tutta la strada che potrebbe fare è sicuramente uno spreco – prosegue la content creator ed esperta – è un mezzo che esiste, che ha richiesto molte risorse per la sua creazione, e finché assolve ai suoi doveri dovremo utilizzarla. Le emissioni dipendono dal modello, dal motore, dall’efficienza del carburante, dalle distanze. I fattori da prendere in considerazione e comparare sono sempre diversi».
Passare alle auto elettriche è una scelta importante, ma dipende da diverse variabili: la disponibilità economica dell’acquirente, l’uso che ne fa, la disponibilità di colonnine per la ricarica, la possibilità di avere un impianto fotovoltaico sul tetto di casa e molto altro. «Sostenibilità per me è in primis garantire una rete di trasporti pubblici capillare ed efficiente, favorire car sharing, carpooling e noleggio auto. Acquistare un’automobile che si usa principalmente per andare al lavoro e sta per la maggior parte del tempo ferma, non è sostenibile. Per quanto riguarda invece gli impatti di un bene come una t-shirt, non cadiamo nel tranello in cui crediamo che la spedizione sia la parte più impattante. Il processo di produzione è quello che più richiede risorse e di conseguenza impatta con le sue emissioni: il suolo necessario per coltivare il cotone (o qualsiasi altro materiale) che compone il nostro capo; forse si tratta di fibre miste come cotone e poliestere. In questo caso il poliestere è un derivato del petrolio e i capi prodotti con fibre miste non hanno seconda vita, sono irriciclabili». Dove sono stati prodotti? Da chi? Con che energia lavorano gli stabilimenti? Quanto è di qualità quel capo? Quante vite avrà? Sarà riciclabile o smaltibile a fine vita? Sono tutte domande che raccontano la filiera e il percorso che fanno i nostri capi. «La spedizione ha un impatto, e più la accorciamo e meglio è, ma mai l’impatto che può avere un’intera filiera lunga e probabilmente dislocata in più paesi».
Una filosofia diventa moda
Tutto bene dunque? Insomma. Qual è il rischio quando una filosofia nel complesso virtuosa diventa una moda? «Il rischio dell’usato, per il consumatore, è quello di avere una scusa per continuare a mantenere un modello di consumo insostenibile “perché tanto poi lo rivendo…” ed è qui che entra in gioco la cultura della sostenibilità – commenta Pomiato – alle persone vengono dati i mezzi per avere una vita più sostenibile in maniera semplice ma sta a noi come utilizzarli, e qui entra in gioco la nostra coscienza ecologica e il nostro senso di responsabilità». Un ulteriore problema riguarda le attività produttive che non mettono in discussione la loro insostenibile sovraproduzione e creano o si agganciano a nuove aziende “circolari” che semplicemente vivono dello spreco generato dai giganti. «I franchising di negozi di vestiti usati vivono della sovraproduzione e del sovraspreco altrui, se ci pensiamo bene, in un mondo veramente sostenibile, non dovrebbero proprio esistere. Crediamo davvero che sia un loro interesse combattere lo spreco, se il business model che hanno costruito vive e cresce proprio grazie a quello spreco? C’è bisogno sempre di lavorare alla radice dei problemi e a cascata di avere dei business model fluidi e in evoluzione».
Cosa si compra di più
Il mondo anche detto, non a caso, «pre-loved» comprende tutte le sfere della vita. Dall’Osservatorio emerge che tra le categorie più popolari e che hanno generato più valore troviamo veicoli al primo posto (10,6 miliardi di euro) seguita da casa e persona, la categoria che cresce più delle altre (6,7 miliardi di euro nel 2022 vs 5,7 nel 2021), dove troviamo ciò che fa parte della sfera quotidiana e più affine al concetto di seconda mano. In terza posizione elettronica (4,5 miliardi) e sport & hobby in quarta (3,4 miliardi), stabili rispetto al 2021 per valore generato.
Rimane dunque da domandarsi a quali criteri dovrebbe rispondere un sistema di commercio di beni usati davvero sostenibile: «Sarebbe interessante avere un negozio dell’usato di prossimità in ogni quartiere o implementare in ogni app la possibilità di vendere/ritirare di persona i beni disponibili in prossimità. Per permettere in primis la facilità di questo gesto, il fatto che ogni oggetto venga scambiato/venduto all’interno della comunità di prossimità e riferimento, questo aiuterebbe le relazioni sociali e ad abbassare gli impatti di packaging e spedizioni».