Nella guerra dei dazi avviati dal presidente Trump, che succederebbe se ci fosse una tassazione comune tra i Paesi dell’UE per le big tech? Ecco quali scenari prevedono gli analisti.
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Tassazione, dazi e contro-dazi
Mentre gli Stati Uniti contestano le digital services taxes di vari Paesi tra cui l’Italia (oltre a Francia, Spagna, Regno Unito, Canada e altri), giudicandole discriminatorie contro le multinazionali digitali americane (Meta, Google, Amazon, Apple), per contro l’UE valuta come rispondere ai dazi Usa con una strategia basata su tassazioni comuni o “contro-dazi”.
Secondo un rapporto Mediobanca, nel 2022 11 delle prime 25 multinazionali websoft erano statunitensi, con un fatturato che rappresentava oltre il 69% del totale. Anche in questo caso, i Paesi stranieri sono accusati di aver implementato strumenti fiscali “espropriativi” dei profitti generati da queste imprese, oltre a interventi regolatori discriminatori a danno degli USA. Una risposta che si basa sul fatto che le corporate americane detengono la proprietà dei brevetti alla base del business digitale. In particolare, i principali obiettivi di questa mossa sono le digital services taxes, già introdotte da vari paesi europei (Italia, Francia, Austria, Spagna, Regno Unito) ed extraeuropei (Turchia, India) per tassare i ricavi derivanti da servizi digitali come pubblicità online, intermediazione e data management, spesso basati sulla partecipazione degli utenti. Già durante la prima amministrazione Trump, nel 2019, le Digital Services Taxes erano state fortemente contestate, accusate di essere discriminatorie e in contrasto con i principi fiscali internazionali. All’epoca, gli USA minacciarono dazi sui beni importati dai paesi che applicano le Digital Services Taxes, ma il conflitto rientrò nel 2021 con la prospettiva dell’attuazione del Pillar One dell’accordo OCSE, che prevedeva la cancellazione delle imposte unilaterali come le Digital Services Taxes.
Che cosa vuole l’UE dalle big tech?
Secondo alcuni analisti, l’offensiva statunitense, in particolare sul fronte dei dazi sulle merci, potrebbe fungere da catalizzatore per spingere i paesi dell’Unione Europea a intraprendere un’azione coordinata che potrebbe concretizzarsi in un’iniziativa fiscale comune sul fronte dei servizi digitali che avrebbe l’effetto di spostare la tassazione delle multinazionali digitali dal tradizionale dibattito sull’equità e la ripartizione del gettito a una strategia tariffaria nel contesto del commercio internazionale. Un’azione che richiederebbe necessariamente un’azione concordata a livello di Unione Europea, come si legge su Agenda Digitale.
Sebbene i Paesi dell’UE presentino una bilancia commerciale attiva con gli Stati Uniti per quanto riguarda le merci, cosa che li rende vulnerabili ai dazi americani e che possono causare danni ingenti alle economie europee, la situazione cambia sul fronte dei servizi.
L’UE soffre di un saldo negativo nella bilancia dei servizi, escludendo gli introiti turistici, a causa delle importazioni di servizi immateriali e degli acquisti di diritti di proprietà intellettuale forniti dalle big tech statunitensi. In questo scenario, un’imposta unica europea sui servizi digitali è ipotizzata come una possibile risposta strategica ai dazi USA, affiancando i contro-dazi sulle importazioni di merci fisiche che la Commissione europea ha già annunciato di voler applicare in fasi successive.
Resta, tuttavia, l’incognita sull’adesione a tale soluzione da parte di Paesi come Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi e, per interessi diversi, Germania e Paesi scandinavi, che sono tradizionalmente contrari a misure unilaterali in assenza di un ampio accordo internazionale, ma che sono comunque colpiti dai dazi di Trump.
In particolare, la potenziale nuova imposta europea sui servizi digitali potrebbe assumere queste configurazioni: basarsi sulla struttura generale delle Digital Services Taxes già in vigore in alcuni Paesi europei, valorizzando le esperienze esistenti e coordinandole per creare un’imposta unitaria a livello comunitario oppure attraverso imposte indirette specifiche sulle transazioni digitali, come una sorta di “accisa“. Questa sarebbe applicata in modo armonizzato a livello europeo. Indipendentemente dalla forma scelta, un elemento distintivo di questa proposta, se concepita come risposta strategica ai dazi USA, sarebbe che il prelievo dovrebbe riguardare specificamente le sole importazioni digitali dagli Stati Uniti, a differenza delle attuali Digital Services Taxes che si applicano indistintamente a servizi offerti da imprese residenti e non residenti.
In questo scenario non mancano le controindicazioni. Una è rappresentata dall’utilizzo di un’imposta sui servizi digitali come strumento di politica commerciale perchè i servizi digitali presentano verosimilmente una domanda relativamente rigida rispetto alle variazioni di prezzo. Di conseguenza, un prelievo fiscale di questo tipo ha un’elevata probabilità di essere traslato sui prezzi finali, ricadendo sui consumatori dell’Unione Europea anziché colpire direttamente le imprese americane. Per avere una reale efficacia come contro-dazio, il nuovo prelievo dovrebbe, probabilmente, prevedere un’aliquota più elevata rispetto a quelle attualmente applicate dalle Digital Services Taxes nazionali in vigore nei paesi europei.
Un’ulteriore opzione potrebbe essere quella di interagire con nazioni concorrenti degli Stati Uniti. L’UE potrebbe cercare accordi commerciali con Paesi come la Cina, il Canada e il Mercosur, reindirizzando verso questi mercati gli scambi di prodotti particolarmente penalizzati dai dazi di Trump. Sebbene le multinazionali statunitensi siano prevalenti, l’offerta di servizi digitali è in forte crescita anche altrove, in particolare in Cina, dove dieci delle prime venticinque multinazionali websoft sono residenti, con una quota di mercato in aumento. Tuttavia, una maggiore dipendenza dalla fornitura di servizi digitali da parte di multinazionali cinesi solleva rilevanti interrogativi, ancora inesplorati, in materia di tutela e riservatezza nel trattamento dei dati.
La reazione americana
Il Memorandum del 2025 conferisce all’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti (USTR) un mandato operativo ampio. Tra le sue priorità rientrano il riesame delle Digital Services Taxes adottate da vari partner europei e l’apertura di nuove indagini sulle misure implementate da paesi come il Canada. Il testo contempla anche la possibilità di attivare controversie formali nell’ambito dell’accordo USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement) qualora le iniziative fiscali canadesi siano ritenute discriminatorie verso le imprese statunitensi. Parallelamente, l’USTR è incaricato di valutare l’impatto di normative europee non strettamente fiscali come il Digital Services Act e il Digital Markets Act, sia sul quadro competitivo delle aziende statunitensi sia sui valori fondamentali promossi da Washington, inclusa la tutela della libertà di espressione.
Recentemente, l’applicazione del Digital Markets Act da parte della Commissione Europea ha portato a sanzioni significative, confermando la volontà di Bruxelles di condizionare attivamente il comportamento delle Big Tech e aumentando, agli occhi di Washington, la percezione di un approccio regolatorio punitivo verso le imprese statunitensi. In risposta a queste misure, il Memorandum contempla l’adozione di misure commerciali ritorsive, considerate appropriate, che potrebbero includere dazi mirati o restrizioni agli scambi. Già in precedenza, Trump aveva minacciato di raddoppiare le aliquote fiscali per cittadini e aziende straniere operanti negli USA come forma di ritorsione.