Arrivano, quasi contemporanee, due decisioni in due diversi casi relativi alla querelle con la Cina. I destini delle aziende sembrano divergere in modo decisivo
Per Xiaomi il sole non tramonta mai, per ZTE e soprattutto per Huawei le cose si stanno facendo davvero complicate: se in California un giudice federale ha deciso di sospendere l’ordine del Dipartimento della Difesa che teneva Xiaomi sulle spine, dall’altra parte del Paese in quel di Washington ci pensa invece la Federal Communications Commission a mettere sulla graticola altre aziende cinesi che ormai da anni sono costrette a parare i colpi degli Stati Uniti. Finendo, come nel caso di Huawei, a dover fare i conti con un vero e proprio embargo che si complica sempre di più: il tutto sempre senza che alcuna autorità USA abbia mostrato al pubblico alcuna prova dei presunti rischi per la sicurezza delle reti nazionali, da più parte sbandierati.
Il caso Xiaomi
La vicenda che riguarda Xiaomi è stata, se così si può dire, il colpo di coda dell’amministrazione guidata da Donald Trump: di punto in bianco, lo scorso gennaio, dal Dipartimento della Difesa erano arrivate incredibili accuse all’indirizzo di Xiaomi di essere un po’ troppo vicina o persino sotto il controllo dell’Esercito della Repubblica Popolare Cinese. Quanto bastava per farla precipitare in una lista nera ai sensi del National Defense Authorization Act (una legge del 1999) che avrebbe impedito ad alcun capitale statunitense di finire in alcun modo nelle casse dell’azienda cinese. Accuse rispedite al mittente da Xiaomi stessa, che a fine gennaio aveva anche fatto ricorso in tribunale per bloccare il procedimento di ban.
La decisione è arrivata nella notte italiana, e il Giudice Distrettuale Federale Rudolph Contreras ha deciso di favorire Xiaomi: il ban che sarebbe entrato in vigore la prossima settimana è ora soggetto a una sospensione decisa dal tribunale, una condizione ritenuta necessaria per impedire che “danni irreparabili” venissero inferti all’azienda, con tanto di giudizio negativo da parte della toga sulla decisione iniziale di inserire Xiaomi in quella lista (“abritraria e irragionevole” riporta Bloomberg) che ha detto anche che Xiaomi è probabilmente destinata a vincere il proprio ricorso.
Laconico il giudizio affidato dall’azienda a un comunicato consegnato ai media: “Xiaomi è lieta di constatare che il 12 marzo la Corte ha ordinato un’ingiunzione al Dipartimento della Difesa americano per impedire l’attuazione o esecuzione della designazione di Xiaomi come CCMC. […] Xiaomi ribadisce ancora una volta di essere una società ampiamente controllata, quotata in borsa e gestita in modo indipendente che offre prodotti di elettronica di consumo esclusivamente per uso civile e commerciale. Xiaomi ritiene inoltre che la decisione di designarla come una azienda militare comunista cinese sia arbitraria e irragionevole, e la Corte è dello stesso parere. Ad ogni modo, Xiaomi ha intenzione di proseguire chiedendo l’illegittimità della designazione e la sua revoca permanente”.
Le patate bollenti di Huawei (e non solo)
Se per Xiaomi dunque le cose sembrano andare bene, lo stesso non si può dire per Huawei: ormai l’azienda di Shenzhen deve fronteggiare molteplici offensive ai suoi danni, le ultime delle quali coinvolgono ancora il Dipartimento del Commercio e questa volta pure la FCC. Il primo, con una decisione che prosegue nel solco tracciato da Trump pur essendo ormai entrati stabilmente nell’amministrazione Biden, avrebbe inviato formale diffida ad alcune aziende a stelle e strisce che a quanto pare avevano trovato il modo di aggirare il ban ai danni di Huawei relativo alle componenti necessarie alla costruzione di apparati 5G. È stata sempre Bloomberg a raccogliere le indiscrezioni anonime su questa vicenda che, anche se manca di una conferma diretta da parte delle autorità o delle aziende interessate, è solo un’ulteriore conferma che la nuova Presidenza non intende cambiare registro per quanto attiene i rapporti con la Cina.
Certamente a luglio, quando si tratterà di rinnovare i decreti che hanno iscritto Huawei ed altre aziende alla famigerata Entity List, a Washington potrebbero decidere di cambiare qualcosa: nel frattempo, tuttavia, gli USA non intendono mostrare debolezze o ripensamenti. Dunque, si prosegue sulla rotta tracciata senza esitazioni. Le parole di Biden, che potevano essere sembrate di apertura quando aveva parlato di collaborazione globale per fronteggiare alcune questioni, non erano più che un modo per indicare che sarebbe stata segnata una discontinuità nel modo di gestire ma non nei contenuti della politica estera e in particolare nei rapporti con la Cina: anzi, si procederà spediti con il piano di mettere in sicurezza l’intero perimetro delle tecnologie che trattano le informazioni, quasi a segnare una sorta di autarchia almeno per quanto attiene alcuni aspetti di una tecnologia che, per prosperare, deve comunque essere aperta e interoperabile – e per aperta, si intende anche agli acquisti e agli ordini di aziende straniere.
A marcare ulteriormente questa faccenda, c’è la decisione della FCC di appellarsi a una legge del 2019 sulla protezione delle reti di comunicazione USA che le poneva in capo la responsabilità di individuare aziende in grado di porre un rischio per gli USA. Così, con la dovuta calma, la Federal Communications Commision è arrivata a identificarne cinque – almeno per il momento: si tratta di Huawei, ZTE (marchio che da tempo subisce un martellamento analogo a quello di Huawei, ma che grazie a una minore fama non soffre dello stesso pressing a tutto campo), Hytera Communications, HiKvision Digital Technology e Dahua Technology. Stando alla FCC, questi 5 marchi potrebbero costituire un rischio inaccettabile se compresi nella costruzione delle reti di prossima generazione: quelle che sono in avanzato stadio di sviluppo soprattutto in Asia, e che invece negli USA sono piuttosto in ritardo nella loro realizzazione.