Le creature viventi non sono semplici prodotti di inesorabili processi evolutivi, sono orchestratori del loro ambiente e partecipanti alla propria evoluzione. Considerando la nostra specie come parte di una forma di vita molto più grande, come membro di un’orchestra planetaria, la nostra responsabilità verso la Terra diventa più chiara che mai. Una creatura chiamata Terra è un’esplorazione dei modi in cui la vita ha trasformato il pianeta e una celebrazione della prodigiosa ecologia che sostiene il nostro mondo.
Per questo il giornalista scientifico Ferris Jabr ha scritto un libro (Una creatura chiamata Terra, edito da Aboca) su come il pianeta è diventato la Terra così come la conosciamo, come sta rapidamente cambiando, e come noi contribuiremo a determinare che tipo di Terra erediteranno i nostri discendenti nei millenni a venire. L’idea della Terra come un immenso e interconnesso sistema vivente negli ultimi decenni sta di nuovo guadagnando consensi. Noi, e tutti gli esseri viventi, siamo molto più che semplici abitanti della Terra: noi siamo la Terra, un risultato della sua struttura fisica e un motore dei suoi cicli globali.
La Terra e le sue creature si sono infatti coevolute per miliardi di anni trasformando un ammasso di roccia orbitante in un’oasi cosmica, un pianeta che respira, metabolizza e regola il suo clima. Risalendo dal profondo della crosta terrestre, nuotando tra le foreste sottomarine, arrampicandosi sulla torre di un osservatorio a metà strada tra le cime degli alberi e le nuvole, Jabr ci svela una nuova e radicale visione della Terra in cui foreste lussureggianti rilasciano acqua, polline e batteri per evocare la pioggia; mammiferi giganti danno forma al paesaggio in cui vivono; microbi masticano la roccia per modellare i continenti; e plancton microscopico rinnova l’aria e il mare.
Gli esseri umani sono l’esempio più estremo dell’azione trasformatrice della vita sulla Terra. Attraverso il consumo di combustibili fossili, l’agricoltura intensiva e l’inquinamento, abbiamo alterato diversi strati del pianeta in meno tempo di qualsiasi altra specie, arrivando a una crisi senza precedenti. Ma siamo anche in grado, in maniera unica, di comprendere e proteggere l’equilibrio del pianeta e i suoi processi di auto-stabilizzazione. E giornate come il 22 aprile, dedicate alla Terra, servono a ricordarci le nostre responsabilità verso la società e il pianeta.
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Da piccola, Yi Guo non vedeva quasi mai un cielo azzurro. Ogni volta che alzava lo sguardo, i suoi occhi incontravano una densa foschia grigia. L’estrazione del carbone era l’industria dominante nella sua città d’origine, Tongchuan, in Cina. La polvere delle miniere e l’inquinamento proveniente dai vicini cementifici soffocava costantemente l’aria. Negli anni ottanta, lo smog era così denso e persistente che i satelliti non riuscivano più a fotografare in modo affidabile Tongchuan, che si guadagnò così il soprannome di “città invisibile”.
La storia di Yi Guo
Quasi tutti quelli che Guo conosceva lavoravano in un modo o nell’altro nel carbone. Il suo nonno materno aveva riportato una lesione spinale durante un incidente in miniera che lo aveva lasciato curvo su un bastone da passeggio per il resto della vita. Il suo nonno paterno aveva sviluppato una malattia polmonare cronica. Guo ricorda un periodo in cui suo padre contava gli incidenti e le morti in miniera a ritmo quasi quotidiano. Quando sua madre andava a fare shopping, sceglieva soprattutto stoffe scure, perché nell’aria inquinata di Tongchuan i colori chiari si sporcavano troppo in fretta.
Attorno ai nove anni, Guo si trasferì a Xi’an, una delle antiche capitali della Cina, dove in seguito frequentò l’università. Andava molto bene in matematica e scienze e decise di studiare ingegneria meccanica. Dopo il master, si trasferì negli Stati Uniti per continuare gli studi postlaurea alla Ohio State University. Lì, uno dei suoi professori le chiese di aiutarlo a capire perché una turbina eolica stava funzionando male. Fino a quel momento, Guo aveva solo una vaga conoscenza delle energie rinnovabili – ricorda di essersi meravigliata davanti alle centinaia di piccole turbine eoliche in un campo erboso durante un viaggio nella Mongolia interna –, ma non le aveva mai studiate nei dettagli. L’energia rinnovabile è abbondante e preziosa al tempo stesso.

La Terra è una roccia gigante, in parte fusa, che irradia calore dall’interno, avvolta in fasce di aria, screziata di fiumi, spruzzata dagli oceani, inondata di sole e ricca di vegetazione autorigenerante. Poiché queste risorse sono prontamente disponibili, reintegrate di continuo e più o meno inesauribili, l’energia che traiamo da esse è a sua volta rinnovabile. Al contrario, le riserve di carbone, petrolio e gas sul nostro pianeta, per quanto vaste, sono finite e nascoste, richiedono un’estrazione e un trasporto intensivi, spesso a spese della salute umana quanto quella dell’ambiente.
Come se non bastasse, l’anidride carbonica rilasciata dalla loro combustione addensa nell’atmosfera il manto di gas serra che intrappola il calore, facendo aumentare la temperatura globale, perturbando il tempo meteorologico e creando un clima molto più imprevedibile e inospitale. La ricerca di Guo sulle turbine eoliche la affascinò fin da subito.
Lei adorava studiare quelle macchine straordinarie che si erano già evolute in tempi così rapidi, ma avevano ancora un grande potenziale. Lei e i suoi colleghi alla fine scoprirono diversi difetti di progettazione nella turbina che avevano dovuto esaminare e trovarono una soluzione al problema. Lavorare sull’energia eolica rappresentava un forte contrasto con le esperienze dei suoi familiari nelle miniere di carbone, un modo del tutto diverso di interagire con le risorse del pianeta e soddisfare i bisogni energetici dell’umanità. Più Guo rifletteva su questa distinzione e sull’importanza dell’energia pulita per il futuro della civiltà umana, più si sentiva ispirata.

Adesso è docente di ingegneria meccanica alla Danmarks Tekniske Universitet, dove si concentra sulla progettazione e fabbricazione delle pale eoliche. “Non capisco come possa risultare vantaggioso per qualcuno nel lungo periodo continuare a usare i combustibili fossili” dice. “Dobbiamo usare quello che già otteniamo dal vento, dal sole e dalla terra, invece di sconvolgere il nostro pianeta. Altrimenti che cosa resterà per i nostri figli? Per i nostri nipoti? Per tutte le nuove generazioni di esseri umani?”
La storia di come la nostra specie ha alterato il clima terrestre comincia molto prima di quanto spesso si creda, ben prima dell’era industriale. Quando ci siamo separati dai nostri ultimi antenati comuni con gli scimpanzé tra i cinque e i nove milioni di anni fa, abbiamo ereditato un mondo costruito e ricostruito nel corso degli eoni dalle precedenti forme di vita. Il suolo fertile, le foreste rigogliose, gli oceani generosi, il cielo azzurro e l’aria respirabile erano doni lasciati in eredità ai nostri antenati dai loro predecessori non umani. Lo stesso valeva per la possibilità di un ulteriore cambiamento: la possibilità di scoprire nuove risorse e nuovi modi di vita.
Nella storia antica della Terra, le uniche fonti di energia ampiamente disponibili agli organismi viventi erano la luce solare, il calore interno del pianeta e i sottoprodotti delle reazioni chimiche spontanee tra l’acqua e la roccia. I microbi primordiali all’inizio si evolsero in modo da poter usare questi tipi di energia e, in seguito, consumarsi a vicenda. A loro volta, le alghe, le piante e l’ossigeno che esalavano diventarono combustibili essenziali per le nuove ondate di vita animale complessa. Un’abbondanza di piante terrestri in un’atmosfera altamente ossigenata innescò anche una nuova fonte di luce e calore: il fuoco.
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Imbrigliando il fuoco, i nostri progenitori hanno trasceso i vincoli energetici imposti a tutti gli altri animali. Invece di mangiare solo carne e vegetazione cruda, gli antichi esseri umani hanno cominciato a cuocere il loro cibo, rendendolo più digeribile ed estraendone più calorie. Questa dieta arricchita ha infine permesso l’evoluzione di un cervello più grande e più denso, capace di sostenere l’assortimento di capacità cognitive che ha reso così vincente la nostra specie. Il fuoco, tuttavia, ha una potenza che dipende da ciò con cui lo si alimenta, e per buona parte della storia umana i nostri antenati sapevano bruciare solo un unico tipo di combustibile, abbastanza inefficiente: piante viventi o morte da poco, in forma di foglie, legno, paglia o letame di mastodonte.
Questa consuetudine è cambiata con la scoperta dei combustibili fossili, che sono depositi imbottiti di energia di vita antica compressa e cotta nel profondo della crosta terrestre (da qui il ‘fossile’ del nome). I depositi terrestri di carbone si sono formati soprattutto nelle calde, afose paludi e zone umide più di 300 milioni di anni fa, durante il periodo geologico a cui hanno dato il nome, il Carbonifero. Quando morivano, le felci giganti, i Lepidodendron dal tronco squamoso e i colossali parenti dell’equiseto a volte venivano seppelliti da acqua e sedimenti prima che i microbi li avessero decomposti del tutto. Con l’accumularsi degli strati di vegetazione morta, erano soggetti a caldo e pressione intensi.
Nel corso di milioni di anni, queste forze hanno rimodellato le piante sepolte a livello molecolare, scomponendo composti esistenti e formandone di nuovi, trasformando le giungle della Terra primordiale in torbiere e alla fine in carbone. Al contrario, il gas naturale e il petrolio sono composti prevalentemente da alghe, plancton e altra vita acquatica soggetti a pressioni e temperature estreme sul fondale dei laghi e del mare nel più recente Mesozoico, da 252 a 66 milioni di anni fa.