È possibile immaginare un altro tipo di Internet. Quello che un tempo molti sognavano. Un Internet pervaso dalla generosità. Un Internet che dia conoscenza, visibilità e speranza al nostro pianeta. Ma prima dobbiamo capire che cosa è andato storto.
La ricetta di Chris Anderson
Come ha fatto l’invenzione più potente dell’umanità a finire per alimentare alcuni dei nostri peggiori istinti e a creare livelli pericolosi di faziosità politica? Non credo che nessuno volesse questo. Tutti gli ingegneri e i progettisti di interfacce utente delle grandi aziende web che ho conosciuto mi hanno detto chiaramente che volevano creare solo cose belle.
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Cose in grado di entusiasmare le persone e attirare la loro attenzione. E per questo venivano acclamati dai loro capi: perché da quell’attenzione potevano ricavare introiti pubblicitari. Ciò ha fatto sì che tutti i più importanti servizi web potessero essere offerti gratuitamente. E questo, a sua volta, ha fatto sì che crescessero a un ritmo esplosivo. Il che ha comportato che potessero avere un impatto enorme sul mondo.
Dal 1994 al 2013, durante i primi due decenni di Internet, abbiamo potuto guardare a tutto questo con grande ottimismo. […] Invece, alla fine di questo decennio di scoramento ci troviamo in una situazione per certi versi paradossale. Da un lato, siamo più che mai dipendenti dalle grandi aziende tecnologiche.
Ogni giorno interroghiamo Google nove miliardi di volte, condividiamo miliardi di pensieri sui social media e ci inviamo cento miliardi di messaggi su WhatsApp. L’utilizzo che facciamo dei servizi di intelligenza artificiale sta esplodendo a un ritmo assurdo. Dall’altro, siamo giunti all’apice della consapevolezza sulle insidie insite nelle big tech. La condanna dei colossi tecnologici è ormai unanime. […] È mai successo prima nella storia che un manipolo di aziende diventasse indispensabile per così tante persone e al tempo stesso amato da così poche? Credo che aggiustare Internet debba essere una delle priorità assolute dell’umanità.
Finché non avremo fatto questo, sarà difficile risolvere qualsiasi altro problema. La civiltà umana poggia sulla fiducia e sulla cooperazione, e in questo momento il web sta erodendo questa fiducia più di quanto non contribuisca a costruirla. Eppure resto dell’idea che questa erosione non sia il destino a lungo termine di Internet.
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Nella nostra storia abbiamo risolto problemi ben più grandi di questo e credo che esista una strada percorribile per arrivare a un’Internet che ci possa piacere. Ma prima cerchiamo di capire il problema un po’ più a fondo. Voglio concentrarmi in particolare sui social media, perché queste piattaforme sono il fulcro di ciò che non ha funzionato. Il problema fondamentale dietro la distruzione della fiducia sotto gli occhi di tutti è che le piattaforme di social media sono state progettate sulla base di una comprensione pericolosamente ingenua della natura umana, ovvero la convinzione che per creare qualcosa che piacesse alla gente bastasse ottimizzarla in base alle «preferenze degli utenti».
Il problema è che l’impatto delle nostre preferenze dipende in tutto e per tutto da quale parte di noi viene attivata. Ricordate la distinzione tra il nostro io riflessivo e il nostro io istintivo (quello che a volte chiamo il nostro «cervello da lucertola»)? Volendo sintetizzare, il problema è esattamente questo: le piattaforme di social media fanno prevalere il nostro io istintivo su quello riflessivo. Lo possiamo vedere chiaramente nell’abitudine sempre più diffusa del doomscrolling, la ricerca compulsiva di cattive notizie online. Si tratta di un comportamento guidato dal cervello di lucertola, che gli utenti dei social media al tempo stesso assecondano e detestano.
È uno scorrimento insensato, alimentato da un’offerta infinita di ricompense che creano dipendenza. Un rapporto sconcertante, pubblicato nel Regno Unito nel 2022, ha stimato che l’utente medio dei social media scorre più di cinquemila schermi di smartphone al giorno – tre volte l’altezza della Torre Eiffel! Questo costringe a velocizzare tutto ciò che viene visualizzato durante lo scorrimento e porta a forme di narrazione sempre più brevi, da TikTok a Instagram Reels a YouTube Shorts.
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È una gara al ribasso che diventa a ogni passo più fulminea. Non è possibile riflettere a questa velocità. La maggior parte delle persone non vuole che la propria visione del mondo venga plasmata da giudizi affrettati. Ma quando questi post e video coinvolgenti, aggressivi e sarcastici ci scorrono davanti, è difficile non prestarvi attenzione e non sentire attivarsi la nostra indignazione. Il cervello di lucertola prende il sopravvento. E quando scriviamo e inviamo la nostra risposta, incoraggiamo l’algoritmo a condividere lo stesso contenuto con altri.
È la ricetta perfetta per avviare una spirale discendente che ci trascina nella disfunzionalità e ci mette in pericolo. Che cosa fare? Innanzitutto bisogna riconoscere che molti potrebbero ragionevolmente concludere che si tratta di un’impresa destinata a fallire. L’effetto combinato di attori malevoli e pressioni commerciali interessate a sfruttare la fragilità umana può rendere il compito semplicemente troppo difficile.
Ma rinunciare a questa sfida equivale a rinunciare a qualsiasi tipo di futuro positivo. Internet incide così tanto sulla nostra identità da non poterci permettere di lasciarla nello stato in cui versa. Vi invito quindi a sospendere per un attimo lo scetticismo e a riflettere insieme a me su che cosa possiamo fare per invertire la tendenza. Dividerò il discorso in due parti: che cosa possiamo fare noi, come utenti dei social media, e che cosa devono fare le società che possiedono i social media.
Cosa possiamo fare noi
In ogni ambito della vita umana l’antidoto per non farci dominare dai nostri istinti è coltivare abitudini sane. […] Ma la cosa più importante che ognuno di noi può fare per invertire la tendenza è attivare un superpotere interiore che trasformerà non solo la nostra esperienza online, ma anche quella degli altri: la mentalità della generosità. Per farlo c’è bisogno del deliberato intento di svolgere un ruolo costruttivo.
Invece di un passivo «Che cosa posso ottenere da Internet?», dobbiamo chiederci in maniera attiva e intenzionale «Che cosa posso dare a Internet?». Siete solo uno tra gli svariati miliardi di utenti, ma la vostra goccia nell’oceano può diventare un’onda.
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È difficile, ma non impossibile. Se almeno una volta nella vita siete riusciti a seguire una dieta, a impegnarvi in una routine mattutina o a portare a termine un proposito per il nuovo anno, allora siete all’altezza del compito. […] Sì, i social media possono mettere il turbo alla generosità, ma anche la generosità può trasformare i social media. La generosità può – lentamente ma inesorabilmente – trascinare dolcemente una massa inquietante di sconosciuti in un luogo più sano.
Cosa possono fare i social media
Non sono contrario all’introduzione di regole sensate, ma arrivarci può richiedere molto tempo. E, anche quando ci si arriva, purtroppo la storia insegna che spesso anche le normative benintenzionate non riescono a risolvere il problema di fondo o aprono la porta a nuovi problemi. Faremmo molto prima e molto meglio se fossero le aziende dei social media a mettere ordine in casa propria, avendo molte ragioni per procedere in tal senso.
A mio modo di vedere, come ho già detto, non si è trattato di una gigantesca cospirazione, ma di un gigantesco disastro. L’intenzione originaria dei social media era creare nuovi ed entusiasmanti modi di metterci in contatto. Dico questo sulla scorta dei contatti personali che ho avuto con alcune figure chiave e con molte altre persone che conosco all’interno di queste aziende. Sono venuti a TED. Hanno parlato con passione del loro lavoro e di ciò che speravano di fare. Non erano esseri malvagi.
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Il loro grande errore è stato il fatto di non aver pensato a ciò che sarebbe successo una volta sguinzagliati gli algoritmi con l’obiettivo di catturare l’attenzione degli utenti il più a lungo possibile. Quegli algoritmi hanno finito col costruire una macchina dell’indignazione, il più grande esempio finora di intelligenza artificiale allo sbaraglio e colpevole di danni involontari. Ora, è vero che questa macchina dell’indignazione è stata bravissima ad attrarre entrate pubblicitarie e quindi a generare profitti smisurati.
Ciò significa che esistono notevoli incentivi commerciali per non smantellarla. Non c’è dubbio che questi incentivi abbiano fortemente rallentato gli sforzi che le aziende di social media hanno messo in campo per affrontare il problema. Ma esistono forze compensative che spingono le imprese moderne ad agire per il bene pubblico. Sulla base di centinaia di conversazioni personali posso affermare che i dipendenti delle grandi aziende tecnologiche, ovvero le persone che creano l’intero valore economico, non vogliono lavorare per qualcosa che danneggia il mondo. Alcuni di loro possono essere portati allo sfinimento o non riuscire a far sentire la propria voce, ma collettivamente hanno un potere considerevole.
Dobbiamo immaginarci queste aziende impegnate in un costante dibattito interno sul modo migliore di procedere. Anche la pressione del pubblico e di un numero crescente di investitori con orizzonti temporali di lungo termine è un fattore importante. Se esistesse un percorso chiaro per risolvere questo problema, anche a scapito della redditività a breve termine, credo che le aziende comincerebbero a imboccarlo.
Che cosa dobbiamo fare adesso? È un dibattito complesso, perché il sistema di portata globale fatto di miliardi di esseri umani che si influenzano a vicenda è una macchina molto complessa. Più di ogni altra cosa vorrei che ci concentrassimo su una domanda chiave: come possono le piattaforme dei social media ridare potere al nostro io riflessivo invece di sfruttare il nostro io istintivo? Se riuscissero a compiere questo passaggio ci avvicineremmo molto alla soluzione del problema.
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Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro “Generosità contagiosa” (Egea), di Chris Anderson, direttore di TED Conference, iniziativa che ha sviluppato fino a farne una piattaforma globale attraverso cui identificare e disseminare le «idee che vale la pena diffondere» – un mantra, questo, che continua a fiorire su scala internazionale, con oltre un miliardo di TED Talks visti ogni anno. Vive tra New York e Londra.
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