Davanti aveva sessantasei giovani imprenditori. Stava facendo lezione, quando improvvisamente è suonato un allarme e tutti sono dovuti correre in un garage sotterraneo. A continuare il lavoro. Forse in quel momento non ha pensato al garage che nella sua città, Palo Alto, California, è un monumento. Quello di Hewlett e Packard, con una targa dove molti vanno a fotografarsi, perché ricorda che quello è il luogo di nascita di Silicon Valley. O agli altri garage iconici della Bay Area: quello di Los Altos dove Steve Jobs e Steve Wozniak hanno fatto nascere Apple, quello in cui Sergei Brin e Larry Page hanno lanciato Google, a Menlo Park. «Ma quel garage sotterraneo dove allora mi trovavo era invece nella capitale ucraina e veniva usato come rifugio antiaereo. È lì che ho continuato il mio seminario. Stavo parlando di innovazione e comunicazione, in una città in guerra».
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È un vulcano di simpatia, creatività e competenza, Jeff Cabili. Siamo amici da anni, mi ha affiancato innumerevoli volte alla guida delle nostre visite con l’Italiani di Frontiera Silicon Valley Tour a Stanford University, dove lavora da anni. Jeff è sempre fonte di sorprese. Ma nulla mi ha stupito come il racconto della sua coraggiosa, generosa missione nel creare proprio un anno fa, e tornandoci poi lo scorso maggio, un ponte fra Silicon Valley e un Paese devastato dalla guerra, tenendo diverse lezioni a Kyiv e Lviv (è lui a chiedere di usare la grafia ucraina per Kiev, che è il nome russo, e Leopoli) davanti a startupper, studenti, professori, funzionari governativi, uomini d’affari.
«Ho continuato sotto terra il seminario che stavo facendo per un folto gruppo di startupper ucraini. Un pugno di giovani visionari. E quello spirito d’intraprendenza l’avevo davanti a me: in una città in guerra, ragazze e ragazzi che pensano a creare il futuro e a come ricostruire, mentre il loro Paese è alle prese con bombe e distruzioni».
La storia di Jeff Cabili
Se con Italiani di Frontiera da anni insisto nel raccontare come il saper combinare competenze diverse è il vero, prezioso segreto del talento italiano nella sfida alla complessità, beh nessuno incarna questo incrocio meglio di Jeff, a cui piace definirsi «un’insalata mista», cosmopolita uscito da un autentico crogiolo di culture, incroci, viaggi.
Padre italiano, mamma greca, Jeff è nato in Egitto e cresciuto in Francia, dove si era diplomato in ingegneria chimica al Politecnico di Grenoble. Voleva proseguire gli studi nel campo del business, per questo si trasferì negli Stati Uniti, entrando nella prestigiosa Wharton School dell’Università della Pennsylvania a Philadelphia. Il suo sogno però era andare in California, lo realizzò trovando il primo lavoro in HP. Era il 1975, quella prima esperienza di un anno era stato trampolino per sviluppare competenze manageriali e di consulenza nel campo dell’internazionalizzazione per diverse aziende europee e sudamericane (con un anno, tra 1986 e 1987 pure a Milano). Un’attività che alla fine gli ha spianato la strada per un posto di prestigio in California: direttore di Business Development per Europa, Medio Oriente, Africa e America Latina della Stanford Graduate School of Business/Executive Education.
Per una decina di anni Jeff ha girato il mondo promuovendo i corsi che l’ateneo riserva a una élite di professionisti di alto livello, occasione straordinaria di formazione e networking globale. Ma non ha mai dimenticato la sua passione per una disciplina così diversa dal business: l’arte di comunicare con e senza le parole: non solo gesti, mimica, postura, anche il modo di usare la voce, che può dare al contenuto delle parole emozioni e significati diversi. Dopo averlo insegnato a lungo a Stanford, questo è diventato il suo lavoro con How2Captivate, società che ha fondato nel 2015. E che realizza in tutto il mondo corsi e seminari di formazione su “Comunicazione Non verbale (Potere del linguaggio del corpo e della Voce)”, “Storytelling” e “Rendere brillante una presentazione”, per professionisti di ogni settore, particolarmente preziosi per gli startupper.
L’intervista a Jeff Cabili
Jeff come hai deciso di partire per un’avventura in Ucraina?
È stato un modo per aiutare un Paese in guerra, invece di donazioni ho deciso di andarci a mie spese, Kyiv e Lviv, e contribuire a far comprendere come si fa business in Silicon Valley con lezioni per la comunità di imprenditori, per startupper, per studenti, che arrivavano da diverse parti del Paese. In California, è risaputo, c’è un atteggiamento particolare nei confronti del fallimento, che non è considerato qualcosa di negativo ma fonte di esperienza. Un atteggiamento molto positivo, trasformare in bene qualcosa che è male. Beh, è quel che ho trovato in Ucraina, questa resilienza che hanno le persone, sono molto positive, credono che la guerra non sarà un problema insormontabile, per riuscire e avere successo in futuro, pensano già a come ricostruire con un ottimismo fantastico, sicuri di vincere. Ottimismo e resilienza, senza paura. Persone che già parlano del dopoguerra e vogliono esser pronte per quel momento frequentando lezioni e seminari. E un anno fa, camminando per le strade di Kyiv quasi non si notava che il paese fosse in guerra, i ristoranti erano pieni. Sino a quando suonava l’allarme, e tutti si infilavano nei bunker sotto terra.
Cosa ti ha dato più soddisfazione di questa esperienza?
A Kyiv ho fatto diversi seminari. Uno di questi era organizzato da associazioni studentesche a UNIT.City, primo parco tecnologico ucraino, il più grande dell’Europa orientale. Mi sono trovato davanti 430 studenti, che alla fine di due ore di lezione si sono alzati tutti in piedi per applaudirmi. E per la prima volta in vita mia ho avuto una standing ovation di più di di 400 persone.
Hai fatto diversi corsi anche in Italia e per startupper italiani in California.
Due cose ho notato, con startupper italiani ma pure svizzeri e francesi, nella postura e nell’utilizzo della voce. Tendono a stare davanti allo schermo, cosa che nasconde una parte delle slide. Per questo bisogna stare di lato. Poi la voce: molte volte ho sentito presentazioni a bassa voce ma un volume basso comunica poca fiducia mentre si deve parlare a voce alta e comunicare così sicurezza, che è quel che insegno nello stile di Silicon Valley. È importante essere assertivi e mostrare fiducia in se stessi ma in modo misurato, per non dare agli investitori la sensazione di una presentazione arrogante.
Come comunicare oltre che con le parole durante una presentazione?
Gli italiani sono famosi per il gesticolare, usiamo molto le mani, ma dalla mia esperienza, quando uno startupper italiano fa un pitch, ho notato che in genere è molto più frenato, modesto, una contraddizione rispetto all’atteggiamento richiesto a una startup in Silicon Valley. Spesso nei pochi minuti di un pitch, in genere rivolto a potenziali investitori, gli startupper trascurano la comunicazione non verbale concentrandosi sulle parole. Ma stare davanti allo schermo o parlare a bassa voce contano moltissimo sull’impatto e la qualità della presentazione, per quel che si comunica agli interlocutori, oltre ai contenuti. E su questo mi concentro nei miei seminari, sviluppo una strategia per aumentare questo impatto. La comunicazione non verbale è molto importante perché può modificare il significato stesso delle parole. Non solo col linguaggio del corpo: muoversi o presentarsi in maniera inappropriata, può finire col comunicare proprio il contrario di quello che si sta affermando con la parola. Ma pure nell’uso della voce, in cui tono, espressione e volume possono cambiare l’impatto di una frase. Ad esempio: se pronuncio la frase “Non sono arrabbiato” con faccia accigliata, braccia incrociate, tono seccato, corpo e voce comunicano esattamente il contrario delle parole che dico.
E quanto c’è di “italiano” nel tuo modo di insegnare?
Penso che il mio approccio alla comunicazione non verbale abbia sicuramente componenti e sfumature non “americane” ma piuttosto “europee” o più specificatamente “italiane”: il mio uso naturale e spontaneo dei gesti. Nelle mie lezioni faccio vedere proprio i gesti tipici di diverse culture, comprese quelle francese, greca e italiana. Poi la mia inclinazione a dar risalto a particolari parole o gruppi di parole. Infine, il mio uso dell’arte del mimo, frutto degli studi a livello professionale che ho fatto con un allievo di Marcel Marceau, il maestro francese della mimica.
Hai girato il mondo insegnando come esprimersi a migliaia di persone di Paesi e culture diverse. Quale aneddoto ti è rimasto più impresso?
Nei miei seminari, chiedo sempre a ogni partecipante di fare una presentazione di un minuto. Una volta uno di loro ha deciso di farla cantando. Ed è stata piacevolmente efficace. Non dimenticherò mai infine quel che mi successe nel 2015 vistando un suk a Sulemanya, Kurdistan iracheno. Avevo notato un gruppo di una dozzina di persone che comunicavano a gesti. Erano tutti sordi. Così a gesti e mimando ho proposto di fare per loro un po’ di scenette nel suk, proprio dov’erano. Dopo un quarto d’ora ho dovuto smettere: attorno avevo più di cento persone assiepate che avevano bloccato il traffico e si era creato un gigantesco ingorgo con auto che suonavano il clacsos. Un’esperienza unica: di soddisfazione per me, di divertimento per loro.
E se dovessi citare un maestro che è stato mentore per il tuo lavoro?
Non ho avuto un maestro o un mentore, sfortunatamente. Ma ho ammirato diversi oratori come Obama, o storyteller come Jill Bolte Taylor (biologa autrice di una leggendaria conferenza TED ndr). Non dimentichiamo che un mimo è uno storyteller, senza parole.