Si definisce grammar nazi una persona che non perdona la benché minima esitazione ortografica e il suo fastidio è tale da criticare pubblicamente l’errore. Uno studio dell’Università del Michigan ha delineato i tratti del grammar nazi: chiuso e molto introverso. Se il suo compito è selezionare persone, di fronte a un errore grammaticale può anche rifiutare un candidato. Quale effetto susciterebbe in voi un medico che scrive “patologgia” con due “g”?
Una reazione spontanea, dice il linguista Serianni, sarebbe quella di chiedersi: ma se non sa neanche scrivere la parola, che cosa saprà davvero di malattie? E se a commettere l’errore fosse un’azienda o una startup? Una ricerca condotta in Francia ha evidenziato che gli errori di ortografia commessi, sul web o sulla carta stampata, hanno un impatto negativo sul fatturato. Un testo pubblicitario scritto male ha un impatto negativo, in termini economici e reputazionali, sia per l’inserzionista che per l’agenzia.
A meno che l’errore non sia parte di una strategia che ha l’obiettivo di strizzare l’occhio a una parte di pubblico, quella che tende a commettere frequentemente lo stesso tipo di errore. Ma è tutto lecito nella pubblicità? E violare la norma ortografica vigente in nome di una strategia di business è sempre una buona idea? Una campagna pubblicitaria che ha suscitato un ampio dibattito in Spagna nel 2015 è quella di Chupa Chups. Un’azienda con una una storia interessante da conoscere.
La storia di Chupa Chups
Considerata la prima multinazionale spagnola, Chupa Chups nasce da un’idea di Enric Bernat, legato fin dall’infanzia al mondo dei dolci. Suo nonno Josep, produttore di caramelle in Spagna, ottenne nel 1845 la prima licenza per produrre dolci. A 27 anni, Bernat decide di lanciare la propria azienda dolciaria – Productos Bernat– insieme alla moglie, la cui famiglia era anch’essa attiva nel settore alimentare. Si specializzarono nella produzione di confetti. Ma questa avventura durerà solo 4 anni.
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Contattato da un suo ex capo,Domingo Massanes, per risollevare le sorti della società Granja Asturias, specializzata nella produzione di prodotti a base di mele, Bernat accetta. Ne diventa socio al 50%. Ma il business non decolla. Bernat deciderà allora di convertire l’azienda da produttrice di prodotti alle mele a produttrice di caramelle. Massanes, non credendo nelle potenzialità della nuova idea, lascerà l’azienda. E Bernat diventerà socio unico.
La difficoltà aguzza l’ingegno di Bernat, o secondo un’altra versione della storia, dei ricercatori francesi a cui era stato commissionato lo studio sulle caramelle. Sebbene le caramelle venissero acquistate dagli adulti, i consumatori finali erano soprattutto i bambini che tendevano a mangiarle sporcandosi sia le mani che i vestiti. Perché non riuscivano a trattenere le caramelle a lungo in bocca. La soluzione? Aggiungere un bastoncino. Una trovata brevettata dal confettiere madrileno José S. Martínez nel 1919. E prima di lui da George Smith che nel 1908 aggiunse un bastoncino su un disco di caramella piatta conosciuto come Lollipop.
Per rendere i lecca-lecca più pratici e accessibili, Bernat modificò la loro forma (da piatti a sferici) e le loro dimensioni (da medi a piccoli). E, inizialmente, unirà la caramella a una forchetta richiamando l’idea di un dolce da mangiare con una posata. Ma a causa di problemi burocratici, sostituirà la forchetta con un bastone di legno. E, solo dopo ulteriori tentativi falliti, adotterà il tradizionale stecchetto di plastica che è arrivato fino ai nostri giorni.
Il fallimento aguzza l’ingegno?
Nasce così Gol. La caramella sferica in 7 gusti diversi, simile a un pallone e retto da un bastoncino, destinato a conquistare il mondo. Ma non subito. Il prodotto infatti non ottenne il successo sperato anche per via del nome non proprio accattivante che celava la passione sportiva del suo inventore. Sarà un’agenzia pubblicitaria a trovare il giusto nome: Chupa Chups. Era il 1963. Per incentivare l’acquisto, Bernat fece posizionare un particolare espositore rosso – chiamato cap and flag – davanti alle casse dei negozi. Così da incentivare l’acquisto d’impulso dei bambini.
Sei anni dopo Salvador Dalí realizzerà un restyling del logo, durante un pranzo informale con l’amico Bernat. In soli 60 minuti, su un pezzo di un giornale, disegnerà una margherita al cui centro scrive il nome dell’azienda. Dalì posizionerà il nome nella parte superiore della caramella per aumentarne la visibilità.
Oltre 10 miliardi le caramelle vendute in un solo anno. La Russia, grazie alla richiesta esplicita dei suoi astronauti della stazione MIR, è il primo paese a portare Chupa Chups nello spazio nel 1995. Ma, nonostante i successi, la crisi non tarda ad arrivare. Sia per l’aumentata competitività del settore, sia per l’aumento del costo dello zucchero degli anni ’90.
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Ma anche per la scelta di contrastare questi due fattori con l’abbassamento del prezzo e la diminuzione degli investimenti pubblicitari. Un periodo che il figlio Xavier, a capo dell’azienda, ricorda come «difficile e molto deprimente». Nel 2000 l’azienda vedrà un costante calo delle vendite. E questo porterà, la seconda generazione, alla decisione di venderla alla multinazionale italo olandese Perfetti Van Melle, nel 2006.
Equivoci ortografici “per un mondo meno serio”
La strategia di Chupa Chups è stata sempre quella di giocare con la creatività, l’arte e il marketing pubblicitario. Se sei pensieroso e stai rimuginando sui tuoi errori, invece di mordicchiare una matita, gusta un Chupa Chups. È una delle campagne pubblicitarie diventate virali. Per almeno 16 minuti (tempo effettivamente cronometrato per consumare la caramella) si smetterà di andare in overthinking. Nel 2015 in collaborazione con l’agenzia La Fábrica de Sombreros è stata lanciata una campagna dal titolo Por un mundo menos serio.
Una campagna controversa perché si è scelto deliberatamente di incorre in errori ortografici e grammaticali, da penna rossa, per attirare l’attenzione del suo pubblico di riferimento: i bambini. Lasciando quindi intendere che ortografia e serietà non vanno d’accordo. Per lanciare la caramella al gusto cola, lo slogan era «Esa cola cómo mola, se merece una ola» (Questa cola è così buona da meritare una ola). Ma ecco comparire un como, senza accento sulla prima o; una merese al posto di merece.
Per il gusto panna e fragola, il più venduto di sempre, la frase di accompagnamento era «Se me pierde la cabesa cuando pilo un nata fresa» (Perdo la testa quando mangio una crema alle fragole). Ma nella pubblicità compaiono gli errori frequenti degli spagnoli e degli stranieri. Quello di invertire il se con il me (Me se), la z di cabeza con la s. Secondo Pablo Ballester, esperto di marketing che insegna lo spagnolo – anche attraverso casi studi tratti dal marketing – all’Università di Modena e Reggio Emilia «una buona campagna di marketing deve essere orecchiabile, memorabile e la gente ne deve parlare». Perché «qualsiasi cosa passi nel dimenticatoio è tempo perso».
Per cui le critiche fanno parte del gioco e se la campagna ha successo è chiaro allora che rompere le regole grammaticali è stata una giusta scelta. Allora perché il dibattito sull’uso scorretto nelle parole in una campagna pubblicitaria? Continua il docente: «Perché il creativo ha una responsabilità formativa e informativa nei confronti del pubblico. E questo include il veicolare messaggi che contengano una corretta grammatica e ortografia. La responsabilità è ancora maggiore se i destinatari sono i bambini in pieno processo di formazione».
Parlare o scrivere in modo scorretto non deve essere più divertente e interessante di dire le cose per bene. È pur vero che gli errori creativi rimangono impressi nella memoria anche a distanza di molti anni e hanno il potere di farci sorridere e di ricordarci, per contrapposizione, la giusta parola e il suo corretto uso. Errare è umano. E l’errore intenzionale o volontario è sempre una possibilità da contemplare.
Le 3 regole d’oro impartite da Chupa Chups
La prima regola è ricordarsi che innovare significa anche migliorare ciò che già esiste, trovando modi creativi e, perché no, colorati per rendere le cose migliori. La seconda regola è imparare a liberare la mente dai limiti e dalle convenzioni giocando anche con gli errori. L’errore contiene sempre le potenzialità di una storia da condividere e raccontare. La terza regola ce la ricordano i dati. Solo il 31% delle imprese sopravvive alla seconda generazione, poco meno di 1 su 7 arriva alla terza. Sapere quali sono gli errori più frequenti nel passaggio generazionale aiuta a non fare gli stessi errori. E, magari, a non far parte di questa statistica.
E voi che lezione avete appreso? Se volete raccontarmi la vostra storia di fallimenti e lezioni apprese, scrivetemi qui: redazione -chiocciola – startupitalia.eu