Il primo di agosto del 1955, la rivista americana Life pubblica un articolo che descrive un nuovo modo di vivere: throwaway living. Due parole che introdurranno per la prima volta il concetto di società usa e getta. Simbolo di questa nuova cultura è senza dubbio il marchio Bic, sinonimo di prodotti di uso quotidiano indistruttibili, economici, di massa, non riciclabili, democratici.
Come ebbe a scrivere, tempo fa, il semiologo Umberto Eco a proposito dell’accendino BIC: «Il capolavoro del design moderno, nato volutamente brutto e diventato bello perché pratico, economico, indistruttibile, organico e unico esempio di socialismo realizzato che ha annullato il diritto di proprietà e ogni distinzione di stato».
Una descrizione che rimane valida anche quando proviamo a sostituire la parola accendino con quello di penna. Una penna indistruttibile certo, ma consumabile e dotata di una data di scadenza. La penna, una volta esaurito l’inchiostro, viene buttata via e sostituita con una nuova. La strategia, di successo, di BIC si basava infatti, ieri come oggi, su due principi fondamentali: abbattere i costi- dando il potere al consumatore di usare i prodotti, gettarli e riacquistarli- e renderli accessibile a chiunque. In una parola: democratizzare. «BIC ha democratizzato l’arte della scrittura e ha concesso a tutti il potere dell’espressione creativa», si legge sul loro sito.
Nel corso degli anni, BIC ha diversificato la propria gamma di prodotti, trasformandosi da un semplice produttore di penne a un marchio multiprodotto. Fino ad oggi l’azienda ha lanciato oltre 350 nuovi prodotti ed estensioni di linea. E ancora oggi sul mercato troviamo numerosi articoli di successo nel settore della cancelleria, ma anche accendini tascabili, rasoi, pennarelli per tatuaggi.
Alcuni di questi oggetti sono diventati persino opere d’arte da ammirare. La penna BIC Cristal, l’accendino tascabile BIC full-size e i rasoi a una lama BIC Classic Original e Classic Sensitive fanno parte della collezione permanente del Centre de création industrielle Georges Pompidou di Parigi. Come ormai sappiamo però, il fallimento è parte integrante delle storie di successo. Il fallimento non è l’opposto del successo ma il suo ingrediente principale. Anche nella storia del marchio francese. Ma questa parte non la troverete sulle pagine La nostra storia del sito di BIC.
Dicono che gli errori siano i migliori maestri. Eppure, quando si tratta di raccontare la propria storia, preferiamo nascondere le pagelle con i brutti voti. Anche BIC, nonostante sia un marchio iconico, non fa eccezione. Dopotutto, è difficile celebrare le proprie cantonate.
Dalla passione all’impresa
Marcel Bich nutriva una passione smodata per il mare. Nel 1956 acquista una barca di 22 metri che ormeggia nel porto di Hyères e a cui dà il nome della sua seconda moglie, Laurence. Una passione che decise di trasformare in una sfida quando si mise in testa di voler partecipare alla prestigiosa Coppa America. Nel 1966, creò l’Associazione francese per la Coppa America (AFCA). In fondo, per lui il business era proprio come una regata. Dirà infatti:
«Tra una barca in gara e l’azienda impegnata nella regata economica, gli elementi e le situazioni sono strettamente comparabili! C’è somiglianza tra l’equipaggio di una barca e l’organigramma dell’azienda, un’identità ancora più sorprendente tra la preoccupazione costante di preparare e affilare lo strumento, barca o azienda che sia, al fine di renderlo sempre più efficiente adattandolo; e ancora una curiosa coincidenza tra le condizioni meteorologiche per l’una e quelle economiche per l’altra. In entrambi i casi l’obiettivo è unico, unico desiderio per tutti: VINCERE!».
Per prepararsi alla sfida adeguatamente impiegò alcuni anni durante i quali, insieme all’architetto navale francese André Mauric progetterà la France I. Un 12 Metri JI ad alta tecnologia costruito secondo nuove tecniche con uno scafo in 3 strati di mogano di oltre 30 anni.
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Nonostante le alte competenze messe in campo e le alte aspettative, la prima sfida si rivelò un fallimento. La regata finale si disputerà in una nebbia fitta. La barca francese, in ritardo, non riesce a trovare la linea del traguardo e viene eliminata dagli australiani per 4 a 0.
Questo flop diede il pretesto ai media di attaccare e ridicolizzare il Barone. Quando un giornalista chiedeva un’intervista, a rispondere era sempre la sua segretaria giapponese e, ad ogni richiesta, gentilmente rispondeva: «Il barone lavora, non ha tempo da perdere». Banchieri, tecnocrati e giornalisti erano considerati dal Barone una sciagura da evitare.
Ma il chiacchiericcio e la sconfitta non tolsero a Bich la voglia di gareggiare. Ci riprovò infatti 4 anni dopo, nel 1974. Per l’occasione fu ingaggiato il 4 volte campione olimpico Pol Elvström e rivisto l’albero nella nave. Una notte, mentre veniva trainata tra i porti, la F-1 affondò. Ci vollero alcuni giorni per rimetterla a galla. Jean-Marie Le Guillou, campione del mondo, indossò i colori francesi, ma perse la regata di selezione.
Nuovo fallimento! Come fallimentare fu la partecipazione alla Coppa del 1977. Cinque anni dopo, Bich ha raggiunto la finale delle qualificazioni su France III. Skipper: Bruno Troublé. Un fiasco totale e tutti se ne accorgono fin dalla prima uscita. Nonostante i mancati successi, la F-1 è la prima ad aver difeso i colori della Francia nell’America’s Cup. Considerata un monumento storico nel 1992, naviga di nuovo dal 2013. Per Bich la qualità del suo prodotto non doveva avere eguali e il tempo, quanto meno, gli diede ragione.
Piuttosto che guidato da una passione personale, Bich, verso la fine degli anni ’70, individuò nel surf un’opportunità di mercato, riconoscendone la crescente popolarità tra gli sport acquatici. Pensò quindi che poteva mettere la sua esperienza industriale a servizio della progettazione, in particolare, delle tavole da windsurf. Nel 1981 acquisisce l’azienda Tabur Marine e inizia a produrre e vendere prodotti per gli sport acquatici con il marchio BIC Sport.
Verso la fine degli anni ’80, BIC Sport era uno dei principali produttori di windsurf al mondo e il brand di riferimento per gli appassionati di surf. Dopo 40 anni di successi, nel 2020 il marchio è stato venduto alla società estone Tahe Outdoors. Anche i migliori possono scegliere, ad un certo punto della loro storia, di ritirarsi dal gioco.
Un profumo svanito nell’aria
La vita di Bich e quella di László Bíró si è intrecciata una prima volta grazie al lancio di un prodotto di successo: la penna a sfera. Le loro strade si incrociarono una seconda volta, stavolta nel settore profumiero. E per entrambi la scelta fu un totale fallimento.
I profumi erano venduti come prodotti di lusso a un costo non accessibili per tutti. Catherine Heurtebise, giornalista specializzata in marketing ricorda che Bich voleva rompere i codici di questo mercato del lusso proponendo un prodotto semplice al prezzo BIC.
Per lanciare la sua linea di profumi, BIC strinse una serie di partnership strategiche con leader del settore. Stipulò un contratto con un importante designer di profumi, Firmenich, per sviluppare le sue fragranze. Acquisì una quota del 34% in Chauvet S.A., specializzata nella produzione di essenze. Per quanto riguarda il packaging, rilevò un impianto di produzione di bottiglie da Groupe Saint-Gobain, specialisti del vetro, con i quali progettò un atomizzatore infrangibile. E acquisì Sofab S.A., un’azienda che produceva pompe spray. Per produrre e confezionare il profumo, costruì una fabbrica vicino all’impianto di produzione di bottiglie a Treport, in Francia. Infine, affidò gli spot televisivi a Young & Rubicam, e ingaggiò l’artista britannica Sue Young per disegnare i personaggi animati degli spot. Nel progetto furono investiti circa 45 milioni di euro.
Nel 1988 BIC entra ufficialmente nel settore dei profumi e presenta al mercato Parfums Bic, un profumo dal costo accessibile (circa 3 euro di oggi). Il profumo era disponibile in 4 fragranze con 4 tappi colorati per distinguerli. Due profumi femminili: il rosso Jour, un profumo floreale e il blu Nuit, un’essenza speziata. E due profumi per uomo: Homme, un profumo maschile dalla fragranza muschiata dal tappo nero e Sport, un profumo unisex, fresco e legnoso dal tappo verde.
La bottiglietta, ispirata agli accendini usa e getta, rendeva il packaging inconfondibile. Il New York Times la definì «a prova di perdita», sottolineando l’attenzione al dettaglio nella progettazione di un prodotto che evitasse gli sprechi. Se in Europa un prodotto simile era assente, negli Stati Uniti BIC incontrava due concorrenti. Sullo stesso giornale era infatti possibile leggere che «concorrenti come Avon e L’Oréal hanno già prodotti di profumo a basso costo simili». A differenziali erano i canali di distribuzione. A differenza delle bottiglie chic di Chanel o Dior, i profumi BIC erano infatti assenti dagli scaffali delle profumerie ma facevano bella mostra tra le sigarette e le gomme da masticare delle tabaccherie. Una scelta originale che si rivelò un azzardo commerciale.
Anatomia di un flop
Le cause del flop sono chiare. Secondo l’esperta di marketing francese Heurtebise il luogo di vendita si è rivelato il vero sabotatore del profumo. Il consumatore si è rifiutato di acquistare una fragranza in un ambiente così fortemente associato al fumo di sigaretta, «tanto più che all’epoca – ricorda Heurtebise- fumare nei tabacchini era la norma. Non si può immaginare di provare un profumo in una nuvola di nicotina».
Se l’ambiente, così lontano dall’universo olfattivo, rendeva difficile apprezzare le note delicate e le sfumature delle fragranze, le fragranze ricordavano un deodorante da supermercato. La qualità olfattiva era infatti più vicina a un prodotto per l’igiene personale che a un’eau de toilette di marca. E la bottiglia non era particolarmente bella. «Quando si compra un profumo, si compra anche un universo, un marchio. Il flacone vive anche dopo l’uso della fragranza. Ha un valore, deve farci sognare», aggiunge Heurtebise.
Un altro aspetto non da poco che può contribuire a spiegare il fallimento del prodotto è stata la mancanza di un’esperienza di prova nel luogo di acquisto. L’assenza di tester ha impedito ai consumatori di valutare le fragranze direttamente sulla pelle e di effettuare confronti tra le diverse varianti. In un’epoca in cui il consumatore cercava beni che lo facessero sentire parte di un gruppo esclusivo, questi prodotti risultavano anonimi e privi di appeal. Acquistarli non conferiva alcun prestigio. E anche la pubblicità non raccontava una storia in grado di creare un legame emotivo con il consumatore, mancando di quel tocco che potesse far sognare. Sconfitti sul mercato, nel 1991 chiusero i battenti con perdite per 90 milioni di franchi solo nel primo anno. Il marchio, però, continuò a vivere online su bicperfumes.com fino agli anni 2000.
Se per L. Bíró il fallimento del suo progetto imprenditoriale nel settore della profumeria è attribuibile a ragioni tecniche e organizzative, nel caso di Bich è evidente che le cause vanno ricercate in una errata valutazione della risposta del mercato. Le conseguenze però per i due inventori furono ben diverse. Chi soffrì di più per questo fallimento fu Bíró. A causa di una situazione finanziaria precaria dovette addirittura chiudere la sua azienda. Bich, già a capo di un impero industriale, subì un impatto economico marginale. Come marginale furono gli impatti di due altri flop che racconterò nella prossima puntata.