Ecco il report della serata finale di “Libri Come” la fiera del libro e della lettura di Roma incentrata, quest’anno, sul tema della scuola. Sul palco si sono alternati maestri e narratori, diretti da Alessandro Bergonzoni e Marino Sinibaldi.
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4 super storie di maestri che fanno #labuonascuola (prima della riforma)
«Non abbiamo voluto chiudere la sesta edizione di “Libri Come” con un grande nome. Abbiamo preferito portarvi delle storie da ascoltare e da condividere. Tutte incentrate sul tema di quest’anno: la scuola». E la promessa di Marino Sinibaldi, direttore di Rai Radio3, non è caduta nel vuoto. Otto personaggi, maestri e narratori, si sono alternati sul palco della Sala Petrassi, all’Auditorium Parco della Musica di Roma per raccontare la loro esperienza, il lavoro quotidiano, il tentativo di cambiare, per davvero, la scuola italiana. Storie potenti, capaci davvero di smuovere qualcosa. L’altra faccia di un sistema che spesso rimane al di fuori dei soliti coni di luce mediatici.
C’è chi insegna in un carcere minorile a Torino; c’è chi sta costruendo una rete di centinaia di insegnanti volontari, alcuni insospettabili, per costituire scuole per stranieri; c’è chi ha fatto un documentario che si chiama “Elementare”; c’è chi ha scoperto una storia, di settanta anni fa, che parla di una giovane maestra di appena 13 anni e mezzo, a Lampedusa, in piena guerra. Insomma. Storie di chi ha a che fare con le difficoltà della scuola tutti i giorni, lungo tutto il perimetro nazionale.
Marco Rossi-Doria è un vero maestro di strada. Investito di questa nomina dall’allora ministro Berlinguer per il suo lavoro d’insegnante a Napoli, nei quartieri spagnoli. Marco è uno che identifica la scuola come esperienza di vita; che ha scritto diversi libri sull’essere insegnante; che ha ricevuto il Premio Unicef Italia per l’infanzia (2000) ed è stato insignito della medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per la cultura, l’educazione e la scuola nel 2001: «Dal 2015 al 2023 ci saranno 400mila insegnanti che andranno in pensione e 400mila nuovi insegnanti che entreranno per la prima volta in aula. Mi chiedo: cosa può dire e cosa può dare questa generazione a quella che sta arrivando? Sarebbe un grande fallimento se non riuscissimo a trasmettere ciò che abbiamo imparato in questi decenni di lavoro». Ed è quel bagaglio di esperienze manuali che dovrà essere conservato. Un bagaglio da accostare a quello iper-tecnologico che già invade le scuole italiane: «I giovani insegnanti devono puntare sulla creatività, sulla costruzione di un laboratorio da condividere con gli studenti. Ma per fare ciò bisogna imparare a “fare” sul serio, sporcarsi le mani. Ci vogliono le nuove lavagne e i computer certo ma, vicino a loro, bisogna saper plasmare la creta, riuscire a far volare degli aquiloni, imparare a disegnare e a dire che il corpo esiste. Bisogna insegnare a ballare e ad ascoltare, dire ai ragazzi che a scuola è permesso anche inventare musica. E c’è solo una condizione per fare tutto ciò: imparare facendo». Gli insegnanti devono uscire dalla loro materia e attraversare trasversalmente più discipline, conoscenze, esperienze: «Prendete ad esempio il trattato di Kyoto che è scritto in un inglese molto semplice. Se lo portate in una classe di un istituto superiore e ci lavorate dal punto di vista della lingua, del diritto, dell’economia, della letteratura, dell’antropologia, delle scienze applicate e teoriche, avrete una quantità di informazioni per lavorare un intero anno scolastico».
Mario Tagliani è da 30 anni maestro al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. Il suo racconto è uno dei più forti, emotivamente parlando, di tutta la serata: «C’è un’altra scuola, quella che sta dietro un muro invalicabile. Ma che cos’è un muro? La definizione più bella l’ho sentita proprio a Roma e dice così: “Un muro non è una cosa ma un’idea che fa male”. E allora mi sono chiesto, in un pensiero lungo 26 anni, cosa avrebbe potuto fare la scuola dietro a quel muro». Poi, in quella struttura, è avvenuto l’incontro con Fabio Geda, scrittore torinese inviato dal Salone del Libro a curiosare: «Ho provato a spiegargli quale fosse il mio metodo d’insegnamento. Un metodo che non riguardava né la programmazione né l’insegnamento di grandi fatti come, ad esempio, la Rivoluzione Francese. Io so cosa fare solo dopo aver ascoltato i ragazzi. Non so se faccio bene, qui non è mai venuto nessuno del Ministero a controllare e a dirmi qualcosa. Tu sei il primo». Ma Geda deve aver apprezzato il metodo del maestro Mario visto che, da questa breve esperienza, è nato un libretto chiamato “La bellezza nonostante”. La bellezza nonostante il muro; una dimostrazione che si può fare bene il proprio mestiere e insegnare qualcosa anche in una scuola che nessuno vuol vedere: «Qualcosa si può fare anche per questi ragazzi. Non solo sospenderli per i loro comportamenti o promuoverli per non averli più in classe. Avremo una vera rivoluzione quando la scuola smetterà di essere un carcere e quando il carcere sarà diventato una scuola».
Franco Lorenzoni ha fatto un docufilm sulla sua esperienza di maestro e lo ha chiamato “Elementare“. Attualmente scrive per numerosi quotidiani ed è autore di numerose pubblicazioni di successo come “I bambini pensano grande”, non a caso il tema del suo intervento a Libri Come: «Penso che sia importantissimo arrivare a capire quanto i bambini siano in grado di pensare. Rivendico l’idea che noi adulti non li ascoltiamo abbastanza. Il vizio degli insegnanti è spesso quello di tenere per sé la parola e di non restituirla agli alunni. I pensieri dei bambini sono realmente straordinari ma purtroppo volatili. E volano via troppo velocemente. C’è bisogno allora di qualcuno che glieli rimandi, glieli affidi nuovamente». Ed è colpa degli adulti, forse, se in Italia ci sono così tanti NEET, ragazzi che non lavorano e non studiano: «È un problema enorme quello del lavoro che non c’è ma per me è ancora peggio sapere che ci sono ragazzi che non hanno desiderio di sapere, di informarsi. In quel distacco c’è una responsabilità anche nostra». La conclusione di Lorenzoni è una delle più belle della serata, e riguarda un fenomeno bellissimo, quello dei nidi per scintille: «È facile creare delle scintille. Quello che è difficilissimo è sviluppare un nido che le contenga. Un paio di secoli fa esisteva il mestiere dell’escaiolo: una persona dedita alla raccolta di un certo fungo montano che aveva scaglie così sottili che messe intorno alla bambagia permettevano di costituire un nido che, con un piccolissima scintilla, prendeva subito fuoco. Allora penso che il mestiere dell’insegnante oggi sia quella cosa lì. I bambini sono pieni di scintille, creiamo i nidi per accoglierle».
«Vi racconto la storia di Luca. Un ragazzo come tanti altri. Scapestrato, con una situazione difficile, abituato a non rispettare i divieti e le regole, incapace di risolvere i propri problemi. Eppure aveva un’energia speciale che mi spingeva verso di lui. Forse, un poco, mi ci rivedevo». Così un giorno, Eraldo Affinati, fondatore della Scuola Penny Wirton, ha deciso di prenderlo di petto, guardandolo dritto negli occhi: «So che non ti piace la scuola e che pensi di non avere un futuro. Ma perché non vieni a vedere cosa faccio nella mia scuola e provi a insegnare l’italiano ai ragazzi stranieri e agli immigrati?». Questa è, infatti, la mission che guida Eraldo e i centinaia di volontari italiani (in esponenziale crescita) che hanno deciso di coltivare questo sogno. E Luca è diventato uno di loro: «Senza promesse, senza crediti scolastici, senza voti per migliorare il curriculum o la pagella. Gli ho offerto solo un’altra possibilità, un’esperienza vera e diversa. Per un anno l’ho visto insegnare il verbo essere e il verbo avere a coetanei stranieri. L’ho visto impegnarsi fino in fondo, forse per la prima volta». All’interno della scuola Penny Wirton (che prende il nome dal romanzo di Silvio D’Arzo) si diventa maestri per aiutare ragazzi come Khalik: «Giovani reduci dal “viaggio”, quello più terribile, partiti senza sapere più nulla della loro famiglia. Giunti in Italia si arrabattano in mille lavori e cercano di sopravvivere. Khalik mi ha chiesto di andare in Sierra Leone se avessimo avuto notizie della madre e, credetemi, così è stato» La scuola Penny Wirton ha oggi sedi in Calabria, Veneto, Lazio e non solo. Tutte animate da volontari che non prendono un euro per quello che fanno: «Grazie all’italiano i ragazzi stranieri cercano di sanare le loro fratture. Per questo crediamo nel rapporto uno a uno: condividere lo sguardo altrui è un’assunzione importante di responsabilità, la vera rivoluzione dell’insegnamento». Anche questa, in fondo, è quello che si direbbe di una buona scuola. Eraldo, alla fine, lancia un appello pubblico: «Dateci una sede stabile qui a Roma. Potremmo aiutare molti più ragazzi e ragazze, anche giovani madri. Sarebbe un passo decisivo per far vivere anche a loro la bellezza e l’importanza della scuola».
Con Ascanio Celestini abbiamo fatto, invece, un viaggio nel tempo. Nel 1944, a Lampedusa, per incontrare Franceschina Billeci, classe 1930. All’epoca, in periodo di guerra, scarseggiavano ovunque i maestri. E in un’isola così piccola potete immaginare quanto fosse difficile portare avanti un programma d’insegnamento. Così fu scelta una nuova maestra, Franceschina, che all’epoca aveva solo 13 anni e mezzo. Era cioè di poco più grande dei suoi scolari: «Bombe che cadevano dall’alto, mine in mare per evitare che nuove barche giungessero sull’isola. I maestri non venivano più perché un barcone era affondato e la paura aveva conquistato tutti. A me hanno detto: fai la scuola, tu che sei brava. In cambio mi davano il pane, la pasta e l’olio. Era tutto razionato al tempo per cui non era affatto male». Una storia particolare, una maestra inusuale. E l’insegnamento più grande: a volte si diventa maestri per caso e lo si resta per tutta la vita. Franceschina è ancora viva e sentire la registrazione della sua voce in sala è stata una vera emozione.
Sul palco si sono alternati anche maestri che hanno lavorato o che lavorano con il Ministero dell’istruzione. Come Marco Lodoli, autore di numerosi libri e blogger per vari quotidiani, che ha cercato di sensibilizzare la platea sulle spaccature che caratterizzano il rapporto tra i vari attori della scena scolastica.
«Vorrei una scuola delle idee e non un’idea di scuola». Così, invece, è iniziato l’intervento di Mila Spicola che, dopo un periodo a Roma, ha deciso di insegnare a casa sua, a Palermo, presso la scuola di Padre Puglisi. E anche ora, mentre collabora con il Ministero per attuare quella che sarà #labuonascuola ha sottolineato l’importanza che può avere un sorriso sul viso di un educatore: «Dobbiamo far sì che i maestri e i professori non entrino in aula senza. Mai».
Alessandro Mari e Christian Raimo hanno portato la loro esperienza di scrittori ed educatori. Il primo ha auspicato il ritorno ad una “Slow school” dove la lentezza e la solitudine possano tornare ad avere un ruolo chiave; il secondo, dopo aver letto un notevole divertissement sul primo collegio didattico di ritorno dalle vacanze, ha elencato tutti i punti deboli di una riforma che non lo convince.
La serata è stata condotta da Alessandro Bergonzoni che, nei suoi flussi ininterrotti di commenti, battute, ironie e riflessioni, ha invitato il pubblico in sala, non solo ad ascoltare e ad applaudire gli appelli dei protagonisti in scena, ma ad impegnarsi a modificare il proprio atteggiamento. Svegliarsi e “fare” qualcosa di realmente tangibile in sostegno di chi, ogni giorno, s’impegna a rendere più bello il mestiere del maestro non è in fondo così difficile. Almeno nel sentire storie belle come queste.
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