La tecnologia alla base della nuova era della comunicazione ci spinge verso un’opinione pubblica di tifosi, fan e seguaci incastrati nei loro punti di vista? Dall’analogico al digitale, forse, abbiamo perso la discussione civile
Il problema è sempre lo stesso: spesso dimentichiamo che l’innovazione cambia le persone attraverso la mutazione degli ecosistemi. Degli ambienti in cui si muovono, vivono, lavorano, amano, discutono, si informano. Sono quei contesti che possono aprire o restringere opportunità stravolgendo – oppure, goccia dopo goccia, invenzione dopo invenzione, modificando – il loro modo di analizzare il mondo. Un paio di studi degli ultimi tempi, uno dei quali italiano, ci raccontano per esempio con grande chiarezza come la nostra dieta informativa sia clamorosamente influenzata dalla cerchia che ci portiamo dietro sui social network.
Che cos’è una bolla sociale collettiva
Uno è firmato dall’Imt Alti Studi di Lucca ed è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. Ci spiega che la disinformazione è inversamente proporzionale alla varietà dei nostri contatti su Facebook & co. E che dunque se frequentiamo un giro troppo simile per orientamenti e interessi, tenderemo a incastrarci in una di quelle che i ricercatori chiamano “bolle sociali collettive”. Costruendoci intorno un ambiente digitale carico di sciocchezze e di opinioni deboli e carente di un serio (sano, verrebbe da dire) contraddittorio.
L’altro, uscito su PeerJ Computer Science e basato su 1,3 miliardi di post e 100 milioni di visite online, parla invece delle fonti: da dove arrivano quelle notizie che i nostri “amici”, e noi stessi, mettiamo in circolazione? Minore è la ricchezza delle fonti, maggiore è la possibilità di sviluppare posizioni personali in base a versioni a senso unico, se non a fattoidi veri e propri che rigettano ogni tesi contraria o variante. L’antipasto del fondamentalismo.
Queste bolle sociali informative mi sembrano la premessa, e forse anche la causa prima, di quel dibattito che ha trovato un ultimo sviluppo con un commento su Fast Company firmato da Douglas Rushkoff. In poche parole vi si sottolinea il fallimento di internet come amplificatore di solidarietà e annichilitore di confini. Ne è passato di tempo dalla celebre Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio del poeta, saggista e attivista statunitense, fondatore della Electronic Frontier Foundation, John Perry Barlow eppure quegli auspici non si sono realizzati: quell’indipendenza dalle tirannie, specialmente quel mondo “in cui tutti possano entrare senza privilegi o pregiudizi basati sulla razza, sul potere economico, sulla forza militare o per diritto acquisito” appaiono utopie.
La Brexit, The Donald e i neonazionalismi
Fast Company prende due casi pachidermici come prova di questo percorso a ostacoli. Da una parte la Brexit, dall’altra la campagna elettorale per la Casa Bianca, che vede Donald Trump e le sue qualità morali ostinatamente al centro della scena. Non solo, si potrebbe aggiungere il ritorno dei nazionalismi, la sempre più inquietante xenofobia che sta avvelenando buona parte dell’Europa, le reazioni scomposte alle ingiustizie della globalizzazione che le sinistre non hanno saputo prevedere e le destre razziste pensano di sciogliere chiudendo i confini, con nuove pulizie, nuovi apartheid, nuove tragedie globali.
Cosa c’entra internet? Be’, intanto c’entra a contrario. Tutto ciò che i suoi fondatori e pionieri promettevano fatica a realizzarsi, almeno su scala macropolitica. Dall’altra, secondo molti, è proprio l’ambiente digitale nel quale nuotiamo e ci nutriamo di notizie e informazioni (più appropriatamente, di visioni del mondo) a non concederci spazio di allargamento e a condurci verso atteggiamenti più intransigenti. Basti pensare, per aggiungere un altro elemento, all’acredine contro il progetto europeo: una volta un sogno, oggi per moltissimi cittadini una condanna.
L’importanza dei contesti mediatici
“L’invenzione della scrittura ha incoraggiato le storie, i contratti, la Bibbia, il monoteismo. Le torri orologio nell’Europa medievale spinsero ai compensi orari e supportarono il futuro ethos del “tempo è denaro” dell’era industriale. Diversi contesti mediatici ci conducono a giocare diversi ruoli e a vedere, pensare o agire in modo particolare. L’era della tv riguardava il globalismo, la cooperazione internazionale e la società aperta. La tv consentì alle persone di vedere cosa accadesse altrove, spesso dal vivo. Ci ha collegati ed ha abbattuto le barriere. I principali problemi degli ambienti digitali riguardano invece le separazioni”.
L’analogico è continuativo, il digitale discreto
La tesi di fondo è che i media analogici come radio e tv fossero continuativi, come il suono di una canzone su un vinile dice Roushkoff. I media digitali sono invece fatti di sample, di contrasti, di pezzi e di tasselli presi in modo discreto e, in definitiva, discontinuo. La lettura è interessantissima: per sua stessa struttura informatica e tecnologica il digitale divide in effetti i messaggi e i segnali in pacchetti di dati e li rimette insieme alla fine della catena. 1010100111 e così via. L’idea è che questa logica non possa non riversarsi nelle app, nelle piattaforme, nei programmi e dunque nell’ecosistema complessivo che ci troviamo a vivere, costruendo giorno dopo giorno un paradigma diverso di ragionamento. Fatto di opposizione, divisione, contrasto. Un po’ come se fosse scomparso il territorio grigio che in tanti detestano ma che probabilmente spingeva all’attesa, alla diplomazia, raffreddava gli animi, smontava le emozioni e le trasformava in riflessioni.
L’onomastica non mente
Curioso che molti sistemi lanciati dai colossi dell’hi-tech, da Apple a Microsoft, puntino in effetti – nella loro offerta delle funzionalità dei sistemi operativi – proprio nel recupero dei quella linearità perduta: Continuum di Redmond, per esempio, per collegare uno smartphone a pc e tastiera e farne un computer desktop. Oppure Continuity di Cupertino, per spostarsi senza problemi tra i dispositivi iOS e il Mac o usarli contemporaneamente. Questo testimonia che quell’assunto di partenza è corretto: fino ad oggi, e ancora a lungo, abbiamo conosciuto un digitale frammentario che ha probabilmente influenzato, giù fino alle più minute sfumature antropologiche, la nostra tecnica di ragionamento. Trasformandoci tutti in tifosi, in supporter, in fan (come vuole Facebook) o nella migliore delle ipotesi in seguaci e follower (come su Twitter, Instagram e decine di altri social network). Pensateci un attimo, anche i follower sono contraddistinti da questo approccio “tutto o niente”: o mi segui o no, o ci sei o non ci sei. Dare una sbirciata ogni tanto non ha senso.
Le questioni politiche e sociali non si prestano all’1 e allo 0
Il passaggio successivo è chiaro, no? Anche nelle questioni di sostanza, cioè nella politica, negli argomenti di genere, nei temi sociali e di welfare, nell’accoglienza finiamo col ragionare secondo uno schema binario del quale siamo sempre più prigionieri. E siamo destinati a rimanerlo sempre di più, in attesa che l’intelligenza artificiale cresca, si perfezioni e comprenda davvero il linguaggio naturale: per il momento saremo guidati, penso per esempio alla sbornia da bot, a sposare quello pseudoragionamento a due canali. Provate a chattare con un robottino da chat: se non gli rispondete secondo gli schemi che conosce, spesso binari, otterrete silenzio o irritanti ripetizioni.
E tu da che parte stai?
“Bianco o nero? Ricco o povero? Sei d’accordo o no?” dice Rushkoff. E in effetti basta uscirne, dall’universo digitale, per calarsi nella realtà e capire quanto siamo già ammantati da questa specie di circolo vizioso del ragionamento. Ogni tanto ci provo, per esempio con chi viene a suonarmi alla porta di casa e vuole vendermi qualcosa: lo porto alle estreme conseguenze con domande legittime e sensate ma non programmate e anche il malcapitato rappresentante finisce col parermi un povero bot. Internet ci aiuta forse a prendere posizione e a capire da che parte vogliamo stare. Ma rischia spesso, specie per chi vive vite povere di rapporti sociali reali, di incastrarci in quell’angolo. Come in un caucus che non finisce mai e nel quale non ci è consentito cambiare lato della stanza.
La memoria ci tradirà
L’ultimo punto è quello della memoria. Ne abbiamo troppa a disposizione e dunque non ne abbiamo più alcuna contezza né considerazione. O meglio, abbiamo imparato a dare per scontato il passato, recuperando solo ciò che ci interessa – spesso posizioni parziali, trascurabili, sempre con quella logica discreta – e dunque saremo destinati a ripetere con clamorosa stupidità i nostri errori, ricalcando impronte che non ricordavamo di aver lasciato. Consentendo inoltre ai messaggi d’odio – che sono sempre esistiti – di cavalcare i principi di libertà d’opinione (come quelli del primo emendamento alla Costituzione statunitense, alla base delle policy di tutte le principali piattaforme americane in tema di rimozione e censura dei contenuti) per incunearsi in quel territorio fatto di pro o contro.